Un nome, un logo, una leggenda: Strana Officina. Orgoglio dei rockers italiani, serate e birra, scontri con i punk, Italia degli anni -anta, concerti con Venom e Exodus, un heavy metal primordiale, un hard rock caldo, caldo come le serate di Livorno, quando il mare alla rotonda d'Ardenza accompagna chi passeggia e ci sono i ragazzetti sulla spiaggia, caldo come l'asfalto della FI-PI-LI, che fu tomba dei Cappanera, caldo come il boccale lasciato su quel tavolo a "Profumo di puttana" e dimenticato lì, fino a "Officina", caldo come il metallo incandescente di quell'officina: "Certo che questa officina è proprio strana".
È la fine degli anni ottanta e non c'è filologia musicale che regga: il death metal è già nato, la componente blues se n'è andata da un pezzo, sta per nascere il grunge. Ma per la Strana Officina siamo ancora nel 1980. Un disco in ritardo coi tempi? In realtà no: il materiale era per lo più precedente (e in parte già presente su "Strana Officina", EP del 1984) e la band amava quel suono, amava quella matrice blueseggiante, amava il metal dei Saxon; per le vie della rossa Livorno era ancora il 1980.
Quattro tipacci che oggi visti così fanno ridere, ma all'epoca rientravano nello stereotipo del metallaro, e tutto sommato uno con le spalle di Bud Ancillotti non credo che incontrarlo arrabbiato in un vicolo la sera sia divertente. E poi quell'intro. E parte uno degli apici del rock italiano.
"King Troll" è superba, con un riff e un incastro strofa-ritornello da manuale, che i produttori inglesi ci avrebbero messo la firma. "War Games" è un brano con un gran tiro e lascia il meritato spazio alla tiratissima "The Kiss of Death", con un testo meno scontato di quello che sembra, una sezione batteristica da paura e un basso che sul bridge mette in risalto le qualità del talentuoso Enzo. "Black Moon", che già conosciamo, assicura alti livelli con un brano già presente nell'EP, penalizzato da una produzione più radio-friendly che non rende del tutto giustizia a questo maestoso capolavoro. La title-track, versione inglese dell'inno anti-droga "Sole mare cuore" è un avvolgente heavy blues americaneggiante direttamente trapiantato sul palco di qualche live club squattrinato di Livorno. "Burnin' Wings", nuova versione di "Piccolo Uccello Bianco" subisce la stessa sorte della compagnia "Luna Nera", ma chi ha già gustato l'EP d'esordio può chiudere in bellezza con la magistrale "Falling Star", una metal ballad che rivela la sua anima più rocciosa e infine "Don't Cry", che nasce da "Vai vai", brano in cui la band mette in mostra capacità di riffing e composizione eccezionali oltre a un gusto per testi ottimi, ancorati alla realtà ma con la capacità di guardare la vita a testa alta e col sorriso.
Con l'ottava traccia si chiude un disco che non presenta filler, non presenta brani che non siano almeno ottimi, non presenta significativi momenti minori. Le capacità tecniche sono altissime: Fabio - mi piace dire - sta all'Italia come Akira Takasaki sta al Giappone: semisconosciuto, eppure classe ce n'è... Le uniche pecche di questo disco: la prima è la produzione non perfetta, che non lascia spazio all'anima rocciosa della band in favore di soluzioni più orecchiabili non sempre perfette, la seconda è che - romanticismi a parte - il sound è un po' in ritardo coi tempi. Ma è andata così, amen.
Il timbro di Bud è estremamente particolare, così come lo stile della band che tocca dal blues al thrash, da momenti quasi prog a altri che attingono a piene mani dalla NWOBHM. Se non sempre i brani sono elaboratissimi, è infatti da notare che la definizione di "heavy metal semplice e casereccio" non si sposa alla perfezione con ciò che in realtà la band è: un gruppo di gente dalla grande cultura musicale, relativamente versatile e con un'ispirazione che va ben oltre il comporre un brano di tre minuti con un riff carino e un ritornello orecchiabile.
In altre parole, il formidabile apice di uno degli apici del rock italiano. Come potrò dimenticare le ore ad aspettare che sul palco salisse la Strana, accanto a me quello che sarebbe diventato uno dei miei migliori amici, come potrò dimenticare quella sera d'estate nella calura di Livorno, con quella ragazza che non era mai stata a un concerto heavy metal prima d'allora, mentre gli amplificatori stavano preparandosi a far esplodere l'aria con la musica migliore del mondo? Non potrò: e perdonatemi questa piccola digressione, perché la verità è che la stessa memoria è stampata, incisa nel cuore dei chissà quanti rockers e forse in realtà è proprio questo a dare il voto a un disco così. Un dicscone fatto col sudore. Voto: 95/100.
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