Essendo cresciuto musicalmente avvolto in abrasive camicie di flanella, le gesta del brit-pop nella scorsa decade mi avevano sempre lasciato indifferente, se non irritato in molta della loro vacuità. Devo tuttavia ammettere che ho sempre avuto un debole per i primi Suede.

Brett Anderson, nonostante la sua spocchia e una discreta faccia da schiaffi, sapeva scrivere canzoni pop perfette, sintetizzando al meglio il verbo dei suoi grandi ispiratori (da Bowie ai Japan passando ovviamente per gli Smiths). Inoltre, l’immaginario che i suoi testi evocavano, ispirati da romanzi come “Territori londinesi” o “Time’s arrow” di Martin Amis e dall’opera omnia di Hanif Kureishi, trascendevano la banale dimensione da canzonetta di buona parte della produzione musicale albionica del periodo. Londra e la solitudine delle sue periferie, le sue strade solcate da auto veloci guidate da personaggi dissoluti in cerca di riscatto, donne eleganti (quante volte Brett sussurra quel fonema, “She”...) e dalle ambigue abitudini, sessuali nonché chimiche: di tutto questo la musica del quartetto sembrava la perfetta colonna sonora. Notoriamente il nucleo dell’arte dei Suede alberga nel primo album: uno dei migliori targati UK degli anni 90, con gemme come “Pantomime horse” , “She’s not dead” e “So young”.

“Dog man star” ne fu il degno successore, ma rappresentò la fine della corsa: infatti il talentuoso chitarrista Bernard Butler, deus ex machina musicale, piantò i suoi compagni imitando il suo mito Johnny Marr a registrazioni ormai finite, e da allora la carriera del gruppo londinese avrebbe imboccato un tunnel senza uscita.

Quest’album fu tra i più ambiziosi nel Regno Unito in tutta la scorsa decade: un vero delirio barocco, perché alla già nota componente glam-drammatica si aggiunsero sontuosi arrangiamenti tesi a conferire un carattere epico al lavoro. Non mancano numeri di cristallino pop, come l’atmosferica “The wild ones”, la crepuscolare “The two of us” o la tenera “The power”. Ma i momenti che definiscono la magniloquenza dell’album stanno altrove, nell’obliquità di certe partiture in cui sembra di sentire il totem Bowie stuprato da Phil Spector (la tortuosa “Daddy’s speeding”, che flirta con il mito di James Dean, l’aulica “New Generation”), mentre in “The asphalt world” e “Stilll life” l’alchimia purtroppo suona tronfia anziché grandiosa. I crismi rock and roll di una “The drowners” si trovano invece nelle vivaci “We are the pigs”, “This Hollywood life” e “Heroine” , dove è sempre Butler a condurre le danze, tra gli enfatici vocalizzi di Anderson.

Canzone simbolo è probabilmente “Black or blue”, liquorosa love-song sullo sfondo di una Londra degradata, da cui cercare una via di uscita all’imbocco per Heathrow. Un po’ sopra le righe, come è stata tutta la carriera del gruppo del resto.

In definitiva “Dog man star” fu un album controverso, certamente pieno di lacune ma dotato di grande personalità. Riuscire a enfatizzare gli aspetti più controversi della propria estetica (il languore esistenziale, l’esasperazione kitsch del fattore glamour, lo sfrontato e romanticissimo decadentismo formale) inficiando in minima parte l’urgenza espressiva, è prerogativa dei grandi gruppi.

Carico i commenti... con calma