Mentre in Italia e altri paesi cantanti di un pop lungi dall'essere innovativo, stimolante o particolarmente interessante in qualunque modo, si fanno scrivere scontati brani da personaggi di spessore talvolta ancora più dubbio, nelle charts norvegesi troneggia una vocalist dalle qualità canore devastanti, polistrumentista e con una grande conoscenza musicale, che le permette di comporre brani che mescolano perfettamente elementi puramente gradevoli a trovate originali e qualche colpo di incoscienza. Da sempre contraddistinta da un certo eclettismo, Susanne Sundfør aveva annunciato qualche mese prima dell'uscita del suo quinto disco, Ten Love Songs, che si sarebbe invece trattato di un "album fondamentalmente pop" sull'amore e sulla guerra. Mi aspettavo qualcosa in suo stile ma più orecchiabile del solito, sulla base delle sue affermazioni, non certo una porcheria ma probabilmente un passo indietro rispetto ai pregevoli lavori precedenti, almeno sul piano della sperimentazione. Ebbene, mi sbagliavo.

L'intro quasi ecclesiastico costituito da Darlings lascia presumere grandi cose: una voce soave che si erge su un organo inaspettato, che per la verità firmerà molte delle canzoni. Tutt'altro spirito rivela Accelerate, che introduce suoni assurdi coniugati a toni molto più inquietanti. La vaga sensazione è che Susanne ci abbia presi tutti per i fondelli dicendoci che si tratta di un album perlopiù pop con canzoni d'amore, come preannuncia il titolo. Al ritornello orecchiabile si accostano toni malefici e amenità elettroniche piuttosto pesanti. Di colpo tutto si interrompe e torna l'organo da chiesa con un intermezzo che ha del barocco. Le due linee del pezzo si incrociano nel finale, in cui possiamo contemplare percussioni acustiche ed elettroniche fondersi con sintetizzatori pseudotrance addizionati all'organo a canne e un bel basso potente.

Quasi senza stacco alcuno si entra in Fade Away, singolo di notevole fattura già reperibile da un po'. Tutto molto più leggero di prima, ballabile, cantabile, poco saturo e sempre con quel tocco di organo che pare voler firmare l'album. Inutile commentare la voce. Clamoroso in particolare è l'assolo di tastiera verso metà del pezzo. Destinato a diventare un classico. Il tono muta notevolmente con Silencer: chitarra acustica e voce. Mentre l'arrangiamento si complica, la voce si erge con grazia infinita su melodie memorabili. La seconda parte è lasciata ad orchestrazioni solcate da qualche vocalizzo angelico. Se in Norvegia il pop è questo, preparo le valige.

Kamikaze inizia con suoni di sintetizzatore di assoluto fascino. Mentre la voce inizia ad incidere nelle nostre menti la linea melodica del pezzo, in modo inaspettato entra un beat elettronico che lascia presto adito ad incursioni piuttosto trance. L'elettronica spinta domina in questo pezzo, mentre il synth dell'inizio continua a donare al brano un qualcosa di straniante. Soluzioni armoniche inaspettate si mescolano con certe cose che normalmente potremmo definire banalità, ma che all'interno del contesto variegato del pezzo calzano perfettamente. All'improvviso un gong uccide tutto e lascia spazio ad un outro splendido a base di clavicembalo. Sì.

Inizia poi Memorial, che con i suoi dieci minuti è di gran lunga il pezzo più esteso scritto da Susanne. I fragili suoni tastieristici iniziali sono sorretti da un intenso quanto etereo apparato vocale che ha del sacrale. E infatti l'organo non tarda ad entrare, delicato, fungendo da tappeto per le prime parole della cantante norvegese. Terminata la sezione, all'organo si aggiunge una chitarra acustica e ben presto percussioni e sintetizzatori, fino ad arrivare alle orchestrazioni. Il crescendo si interrompe per tornare alla delicatezza iniziale, per poi ripartire ancora. La seconda strofa lascia spazio a degli arpeggi di chitarra elettrica su organo, accompagnati da vocalizzi multipli e ben presto da misurate ed emozionanti orchestrazioni. Lentamente rimane solo il piano, che dà vita ad una sezione solistica poi accompagnata da archi assolutamente evocativi, con un non so ché di colonna sonora veramente da brividi. Viene da tirare un attimo le somme su quanto si è potuto ascoltare 20 minuti della propria vita: minuti che sono volati in un modo incredibile e che hanno dato modo al nostro udito di passare da potenti muri elettronici a musica barocca ed ecclesiastica, orchestrale, acustica. Ripeto, se questo è il pop norvegese...

Il brano termina dopo un'ottima prova pianistica di Susanne stessa (si presume), che dà prova di grande sensibilità romantica e prima di salutarci si abbandona ad un'ultima e sentita performance vocale. Non posso tentare di descrivere a parole l'ultimo minuto di Memorial. Segue Delirious, anch'essa già pubblicata dalla cantante con qualche mese di anticipo rispetto all'uscita dell'album. L'introduzione dissonante (che porta via un quinto del pezzo) lascia lo spazio ad una performance vocale potente e diretta. L'entrata dell'apparato elettronico è un colpo al cuore, e il ritornello è straniante, con le sue allusioni a direzioni armoniche spesso deluse. Orecchiabile ma non troppo, diretta ma non banale, anche questo pezzo non delude, pur non stupendo oltremodo, complice comunque una performance vocale che non potrebbe essere altro che memorabile. Senza alcun timore, l'outro è lasciato ancora una volta agli archi.

Slowly inizia con delicatezza esemplare. Voce alquanto riverberata e tappeto sonoro etereo. A sorpresa subentrano gli elementi elettronici, dando luogo anche qui ad un ritmo ben scandito, che di quando in quando cede il posto a riprese dell'introduzione, sia pure in modo un poco più sostenuto. Terminato il pezzo sembra però che si sia detto un po' troppo poco. Lungi dall'essere un brano spregevole, forse è il primo momento sottotono dell'album, nonostante l'inizio molto promettente.

Trust Me riprende la formula organo + voce, che questa volta si protrae più a lungo del previsto, arricchendosi solo verso la fine, con tipiche melodie sundforiane che si propongono con suoni celestiali e tessiture di accompagnamento di grande potere evocativo. La tenera poesia è spezzata con violenza dall'intro distorto di Insects, ultimo pezzo dell'album, che rivela subito anche un comparto ritmico più serrato e per certi versi irregolare. I primi due minuti sembrano alludere a qualcosa, sono ricchi di tensione e si attende un'esplosione, più volte preannunciata da suoni disturbanti che si inseriscono a tradimento nell'arrangiamento. Per la verità questo non avviene mai in modo completamente soddisfacente, e il pezzo rimane più o meno invariato fino al termine suo e dell'album intero. Che, per la verità, lascia un po' di amaro in bocca.

Tirando le somme, Ten Love Songs può essere considerato l'album più riuscito di Susanne Sundfør. Quaranta minuti che volano come se fossero quindici al massimo, e con grande godimento. Privo forse di capolavori devastanti come le titletrack dei precedenti due album, riesce tuttavia a spalmare qualità e originalità in quasi tutti i pezzi. Un album di Love Songs che tanto romantiche non sembrano, e che certo non si configurano quasi mai come songs nel senso più comune del termine. Ogni pezzo ha il suo elemento orecchiabile e gradevole a tutti, ma numerosi elementi di sperimentalismo e di forza espressiva di tipo alternativo. L'eclettismo è tra i principali pregi dell'album, sia per quanto riguarda la commistione di strumenti di diversa provenienza, sia per gli stili compositivi adottati. Clamorosa come sempre è l'esibizione vocale, anche se forse in media priva di virtuosismi dimostrati in altri casi. La vena compositiva è ai massimi storici e si dimostra capace di spaziare in un modo che poche cantanti da top sarebbero in grado di dare.
La Sundfør, nonostante un paio di momenti deludenti, non sembra accennare a voler perdere lo smalto, e consegna in questo 2015 un lavoro memorabile al suo ambito musicale. Speriamo che abbia ancora moltissimo da dire!

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