Comincerei da Bernard.

Bernard White era il curatore di "Terrapin" una fanzine di barrettiani estremisti uscita per diciassette numeri nei primi settanta.

Così lo descriveva, non proprio carinamente, un giornalista di quegli anni: "basso, dall'aria malaticcia, capelli rasati come quelli deglia astronauti, la stretta di mano sudaticcia, spaventosamente goffo e timido".

Durante quell'intervista, in un'atmosfera quasi da cospirazione, Bernard White fa ascoltare al giornalista tre brani, allora ancora inediti: "Opel" "Birdie hop" e "Word song".

Nell'articolo si parla poi di una favolosa cassapanca, immensa, e sostenuta da un traballante panchetto, ricoperta da una specie di tessuto indiano, i cassetti ricolmi di memorabilia barrettiani:

Io me la sogno di notte quella cassapanca, un po' come il semino di mela, un tizio che conosco, sogna il baule dei giochi della stanza di Matilde.

”Io Syd lo capisco, anche a me hanno dato del pazzo-diceva Bernard-ho passato un anno in ospedale psichiatrico e sei rinchiuso in questa stanza"

Voglio molto bene a Bernard...

Comunque "Opel" "Birdie hop" e "Word song", dal 1988, fanno parte di questo album favoloso di inediti barrettiani, dove compaiono alcuni indiscutibili capolavori (chissà perchè rimasti fuori da "The madcap laughs" e "Barrett"), oltre a pregevoli alternate takes e a un grappolo di canzoni scheletro.

Iniziamo allora...

Prima di liberarmi di qualche carico da undici, voglio giocarmi qualche scartino.

Il primo è l'uccellino Hop, una delle tante bestioline barrettiane. Che fa l'uccellino Hop? Che domande, saltella triste nella neve, che lui la neve la conosce.

Pure Syd la conosce, perché anche lui è un uccellino che saltella. E se c'è una voce che saltella, anzi zoppica è la sua, soprattutto nelle canzoni scheletro come questa...

Anche la chitarra è zoppicante come non mai e in preda ad una balbuzie piangente, poi c'è come un ravvivarsi, un saltello del sogno, anche se comunque si zoppica ancora...

Cito dai quaderni di Edgar, insigne barrettiano amico mio: “una tristezza saltellante che si identifica con il volo minimo delle creature minime, in questo caso un uccellino che porta nel becco, a mo' di pagliuzza o bastoncino, qualche oscuro detrito della fantasia, non sufficiente a sollevarlo da terra”

Il secondo scartino è "Word song", ovvero il giochino dello scarabeo interstellare portato all'estremo, con un elenco di parole messo insieme per puro gusto ritmico e un bridge di chitarra sornione e beffardo, ideale colonna sonora della più piacevole inconcludenza. Un banale esercizio da studentello di scuola d'arte, o una cazzata, se preferite, eppure, a me piace, specie per quella voce spenta che non sembra compiacersi manco per niente di una simile trovata

Ma cos'è lo scarabeo interstellare?

E' una scatola magica, inventata, per accostare parole a caso, da un amico di Syd, Spike Hawkins, un poeta svaporatissimo. Vale la pena raccontare il loro primo incontro, riportando le parole dello stesso Spike che addormentatosi ad una festa, in preda a profondi pensieri, al risveglio trova Syd che lo guarda. Ecco il dialogo tra i due.

Syd: "ti è piaciuto?"...
Spike: "Si!!!"...
Syd: "e questo è tutto, no?"...
(lunga pausa)...(ma lunga lunga lunga)
Spike: "dove sono stato?"...
Syd: "dove avevi voglia di stare"...

Non sembra un dialogo perfetto per una sua canzone?

Ma veniamo ai carichi da undici.

Ancor più dei saltelli dell'uccellino hop, "Opel" è un picco emotivo e l'emotività, come fenomeno estetico, era per Syd merce rara.

La luccicanza nella meglio gioventù floydiana, e l'assoluta imprendibilità del suo pensiero dopo, erano per lui come una sordina psichica, una camera di decantazione verso una strana specie di bellezza.

Anche "Opel", come "Birdie ho"p, è una canzone scheletro, ma in un altro senso, che qui si sente lo scricchiolio delle ossa. Ecco allora "una spoglia, storta, desolata carcassa...” e “uno scintillare di mosche che scava nella carne ormai svuotata"...

Questo straordinario brano è diviso in due parti, la prima descrittiva, la seconda un'invocazione:in mezzo un lungo girovagare di chitarra, che è un po' come quella carcassa, spoglio, storto, desolato...e sembra rimuginare...creando come un senso di attesa, una suspance quasi insopportabile...

Poi, da quel paesaggio, che poco prima era stato descritto con pochi rapidi tocchi (“un ciotolo tutto solo” “un bastoncino mezzo sepolto” “un totem nero nella sabbia nera” “un sogno di nebbia grigia” “molluschi luminescenti)”, Syd si lancia in una lunga, infinita invocazione, ripetendo in modo ossessivo frasi come “sto cercando di trovarti” “sto vivendo” “mi sto offrendo”..,

Non so, si resta attoniti di fronte a questa straziante essenzialità, che davvero qui non c'è traccia di strampalati scarabei interstellari a scardinare il linguaggio,... e non si viaggia dentro una bollicina un attimo prima che questa scoppi...e non ci sono tastiere metafisiche da luna park dell'anima...

C'è solo una strana specie di blues, a dir la claustrofobia e la mancanza...

Ma tutto questo non basta a spiegare la straordinaria bellezza di questa canzone. C'è, ad esempio, nella parte descrittiva, una grande qualità del cantato, che scolpisce ogni parola, e sottolinea sempre l'ultimo verso con insistite e vibranti cacofonie, cacofonie che poi tornano, dopo quell'incredibile parte di chitarra, e, prendendosi del tutto la scena, rendono umana troppo umana quella voce...
"Swan lee" (per anni la mia canzone barrettiana preferita) è come accorgersi del ribollir di una pentola d'acqua che hai lasciato sul fuoco., come le cicale alle due del pomeriggio quando te ne stai seduto all'ombra di un albero e dopo un po' non ci fai caso..
Come i rumori di un officina lontana, oscuri macchinari che si accendono, come brusio di prato che improvvisamente si amplifica rinvenendo una trama ingarbugliata e innocente di cui solitamente non ti accorgi.
Non ti accorgi. Non ci fai caso.
Si, tutto questo è "Swan lee", ovvero una musica sorniona, pigra e distratta che però scoppietta come il fuoco. Ma anche di questo non ti accorgi o non ci fai caso, specie se segui la voce, distante e neutra, di Syd, che qui è ancora quella, non impastata di Mandrax, della meglio gioventù floydiana...e si impone., ed è psichedelica senza trucchi e senza inganni...è lei e basta...
Ma è bello accorgersi del ribollire della pentola.
E' bello è quel ritornello oscuro "the land in silence stands" che contribuisce assai bene a creare quel senso di sospensione e mistero di cui il nostro era maestro.
Riguardo alle alternate takes, due sono particolarmente sfiziose.
"Octopus" capolavoro di "The madcap laughs", qui ribattezzata "Clowns and jugglers" ha spunti quasi free form, assenti nella versione più conosciuta.
"Rats", da "Barrett", qui in una take solo voce e chitarra, che accentua la folle ritmicità delle parole..
Gia, "Rats"..."I love the fall that brings me to"..."amo la discesa che mi trascina" dice Syd. E "Rats", appunto, è una discesa con lui spericolato, spericolatissimo, come certi ciclisti al tour sotto la pioggia, o certi miei amici quando col carriolino coi cuscinetti a sfera affrontavano la "neretta", la leggendaria discesa detta picco delle ossa rotte.
Ovviamente in "Rats" non c'è un carriolino, ma uno svitatissimo guazzabuglio sonoro dove parole stridenti e giocose saltellano su un ritmo sferragliante e veloce di acustica brindellata. Ora, si sa, in discesa tutti i santi ti aiutano, ma solo se vai piano, solo se non è troppo ripido, solo se non sei in cima alla neretta.

Io quando salivo ero in subbuglio, anche perchè sapevo che non avrei mai avuto il coraggio di scendere.

In "Rats" il salire, l'andar su prima del precipizio, è un folle rimuginare, ogni frase uno scalino pericolante, e quel che sentiamo è un dolcissimo e incoerente prepararsi alla discesa.

E quando ci si butta non ci sono più appigli...e si è come senza mani e senza piedi, senza niente di niente, se non il peso dell'aria che fa si che questa sia ancora musica e non semplicemente uno sfracellarsi.

Bellissima anche la versione alternativa di "Dark globe", qui ribattezzata "Would'nt you miss me". E' meno ubriaca e urlata e più malinconica e dolce rispetto a quella che compare in "The madcap laughs".

Gli altri inediti del disco sono, come già detto, canzoni scheletro, buone solo per barrettiani estremisti come me. Capisco che altri possano trovarle solo un vano farfugliare. Hanno il fascino dello schizzo, del non finito. Poi siccome anche il Barrett finito è in realtà non finito, le canzoni scheletro sono un non finito del non finito. Quindi una figata.

Le alternate takes aggiungono poco, ma sono comunque alternate take di capolavori e quindi...

e quindi, se già non l'avete fatto, ascoltate questo disco...

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