Fra le uscite che hanno caratterizzato questi primi mesi del 2015 e che hanno fatto parecchi giri nel mio lettore ci sono anche i Sylvan, la semisconosciuta prog band tedesca nota a quei pochi per il suo stile delicato, emozionale, vagamente depressivo e anche rabbioso all’occorrenza. Il concept album “Home” esce a 3 anni dal pretenzioso e forse eccessivamente annacquato “Sceneries”.

Il giudizio che a questo lavoro mi sento di dare è il seguente: è in ogni caso un ottimo album, che conferma la raffinatezza e la delicatezza tipica del sound della band ma risulta un tantino prolisso e ci si poteva complessivamente aspettare qualcosina di più.

Le melodie risultano quasi sempre delicate, soffici, sorrette da una voce altrettanto delicata e sofferta… si ha però l’impressione che su questa delicatezza estrema la band si sia adagiata e manca quel maggior dinamismo che caratterizzava i migliori lavori della band; in essi era molto più facile trovare soluzioni chitarristiche e tastieristiche particolarmente interessanti che rendevano più varia e dinamica la proposta. Qui si legge un po’ di manierismo nelle parti di chitarra ma anche nella scelta di puntare un po’ troppo sulle parti di piano. Ciò non toglie che vi sia qualcosa di stuzzicante qua e là: il brillante e pomposo ma allo stesso tempo delicato arrangiamento orchestrale di “Not Far From the Sky”, il lento e morbidissimo arpeggio acustico di “With the Eyes of a Child”, la brillante melodia di “Shaped Out of Clouds” (con il suo particolare brusio di sottofondo), e i profondi suoni di tastiera di “Off Her Hands” mentre brani come “Sleep Tight”, “All These Years” (nonostante l’oscura linea di basso iniziale) e perfino la conclusiva “Home” sembrano essere dei riempitivi.

Ma per fortuna ci sono un paio di brani che spezzano il manierismo delle altre tracce e offrono veri e propri colpi di genio tirando su la media dell’album. Il top è sicuramente “In Between”, che oltre ai momenti delicati offre un ritornello deciso cantato rabbiosamente da Marco Glühmann, una parte più metal accompagnata da un pesante loop elettronico ai limiti dell’industrial, un solo di synth delicato ed altri particolari fruscii sonori. Brilla di luce creativa anche “Point of No Return”, ancor più improntata sul progressive metal con riff di chitarra spinti ma senza esagerare e con tastiere dai suoni acidi ben incastrati. In “The Sound of Her World” si possono riascoltare i soffici ma sofisticati tocchi di chitarra tipici delle migliori produzioni dei Sylvan mentre il tocco di genio è rappresentato dalle continue scale “sali-scendi” di tastiera che accompagnano il deciso ritornello; passaggi che potrebbero addirittura ricordare i Muse di brani come “Starlight” anche se ovviamente di influenza stilistica dei Muse non ve n’è la benché minima ombra. Sono brani che per quanto belli ti fanno mangiare le mani: viene subito da domandarsi cosa sarebbe stato se ci fossero stati più brani di questo calibro… Il “mannaggia” scappa anche dopo aver sentito “Black and White” (anch’essa fra le migliori): dopo 6 minuti della solita melodia delicata stile Marillion abbiamo un minuto finale più duro e movimentato con suoni di synth “cibernetici” davvero geniali che immancabilmente spiazzano l’ascoltatore. La domanda sorge spontanea: perché lasciare alle idee geniali così poco spazio? Perché è così diffusa la tendenza ad inserire solo qualche manciata di secondi geniali in mezzo a decine di minuti di cose decisamente più standard? Più che altro vorrei capire se si tratta di paura di sperimentare, di effettiva mancanza di idee o invece è proprio una messa in pratica del concetto di carpe diem… Davvero, se avessero dato più spazio ad alcune soluzioni interessanti e particolari a quest’ora potremmo anche parlare di capolavoro.

Un brano che invece delude è il singolo “Shine”: in teoria è il brano più pop dell’album, con la sua struttura strofa-ritornello molto semplice, ma quella parte metal centrale è alquanto fuori luogo; per la verità contiene delle parti di tastiera interessanti ma anch’esse molto fugaci, come se non esistessero; è una sezione che poteva anche starci ma andava sviluppata meglio, così com’è non ha molto senso di esistere, i Dream Theater nella bistrattata “A Rite of Passage” avevano fatto decisamente meglio, anche loro avevano inserito una parte strumentale poco inerente al resto della canzone in un brano altrimenti piuttosto commerciale ma sviluppandola decisamente meglio al punto da non farla sembrare inutile.

Ma tutte queste sono critiche che si fanno in quanto fanno parte del mestiere di critico ed analista musicale; alla fine finisco per apprezzare le cose sempre per quello che sono. Critiche a parte l’album ha comunque una raffinatezza melodica indiscutibile e il lato emozionale è da sempre un punto di forza dei Sylvan, direi che questo è quanto basta per riservargli numerosi ascolti e probabilmente finirà anche nella mia top ten personale del 2015.

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