"Gary ? Nigel. Senti, quella cassetta...quei brani, di chi sono ?" "Ehm....miei, sono miei, signore....." "Sì, va bene, ma chi te li ha fatti ? L'autore, intendo...." "Io, sempre io signore....." "D'accordo, ma chi ti ha aiutato a produrli ? A programmare e registrare ?" "Ehm....io, signor Martin-Smith, sempre io...." "Ah. Dovresti tornare, allora. Qui, nel mio studio." "Quando...?" "Subito, vieni subito".

I Take That, probabilmente il gruppo con più milioni di dischi venduti nel carniere dell'intera storia britannica, nacquero così, nel 1990. Da un'audizione, da un tavolino, come tutte le boy-band. Agenzia di scouting cerca cinque ragazzi carini per bla bla bla. Gary Barlow fu il primo a rispondere. Non colpì per l'aspetto. Vestito da sfigato, piuttosto pallido, rotondetto, ricordava un paninaro sfigato metà anni '80. Lo liquidarono in fretta, dai va bene le faremo sapere, ma il pischello lasciò lì una cassetta, contenente tre suoi demo. "Girl", perdutasi nel tempo per chissà dove, "Waiting Around", porcata colossale poi divenuta b-side, e "A Million Love Songs", che entrò nella top 10 inglese un paio d'anni dopo.

Nigel Martin-Smith ebbe occhio lungo e clinico. "Il fatto che sia tu a comporre i brani, Gaz, darà credibilità al progetto". Funzionò. E funzionò anche la seconda profezia, enunciata al cospetto degli altri quattro ragazzotti saltati fuori da una durissima audizione. Howard Donald e Jason Orange, imbianchini dediti al ballo con già uno sparuto gruppo di ragazzine al seguito, Mark Owen, mancato bancario con un'infanzia da modello, e Robert Williams da Stoke-On-Trent, al tempo non ancora Robbie, cazzaro di dimensioni cosmiche ma con una vena pop-rock che il tempo gli tirerà fuori a suon di cinghiate. "Tra cinque anni non ci sopporteremo più, ci odieremo. Ma saremo ricchi". Martin-Smith docet.

Nessuna alchimia, quindi, nessun segreto particolare. "Take That & Party" (1991), l'album di debutto dei Take That, nacque così. Strategia e pedalare. Esibizioni nei club gay che Martin-Smith frequentava da mò (il manager fece outing subito, con i ragazzi. "Lads, I'm gay. Any problems ?" ), performances nelle scuole, micro-concerti, apparizioni a colazione, che quando ancora non sei famoso mica ti chiamano alla lotteria nazionale. Fan club, lettere, gadget, orsacchiotti. Successe che il talento altalenante acerbo e zuccheroso, ma con solide fondamenta, del frontman Gary Barlow, fece presa. Non subito, però. Il primo singolo, "Do What U Like", una cagata pazzesca da cui salviamo solo la intro strumentale, fece fiasco. Ma chissene, pensarono: siamo all'inizio, dai, peraltro le ragazzine urlanti erano in ascesa, dunque...Il secondo, "Promises", un'altra boiata, così così: andò al #46, non male dai. Poi avvenne, parere di chi vi scrive, ciò che spesso può esasperare la falsa partenza. Il terzo singolo, "Once You've Tasted Love", composto da Barlow a 16 anni in camera, era bello, coriaceo, sensato. Musicalmente, stava sopra. Ma opplà, ri-fece fiasco. #45 o giù di lì. Che si fa ? Di questi tempi, saresti già finito, fratello. Ma allora, c'era più pazienza. E poi Martin-Smith era un vulcano: se non va il nero, vai col bianco. Coverizziamo, no ? "It Only Takes A Minute", cover dei Tavares, fece boom. Da lì in poi i Take That persero il contatto con la realtà perché il successo li travolse.

Sui brani, possiamo discutere. "I Found Heaven", che i cinque detestarono fin da subito, venne imposta dall'etichetta. Carina, danzereccia. "A Million Love Songs" diede finalmente a Gary quel che è di Gary: numero #7, il dj che lo loda, la nonna e la mamma sedute in soggiorno che piangono. Più credibile, il Barlow, quando si cimenta in "Give Good Feelings", che musicalmente ha gambe solide; i testi perdio, dai, sapete bene, sono quelli lì: ti amo ti voglio ti penso stai con me. Ma il ragazzo, synth e piano alla mano, ci sapeva fare. Si ascoltino anche, per dire, "Why Can't I Wake Up With You ?", versione originale, o "Never Want To Let You Go".

Cercando di non focalizzarsi su quel che sarà (i Take That, piacciano o meno, saranno tanta roba), l'album di debutto consta in una manciata di brani grezzi, mixati male. Peraltro, l'apporto del futuro dio Williams è quasi nullo: non è lui a cantare in "I Found Heaven" e in "Could It Be Magic", come la quasi totalità dei fans crede, ma Billy Griffin, scudiero di un altro arrangiatore di brani per boy-bands, Ian Levine, che di Robbie può ricalcare la voce in maniera dignitosa e fedele. Provarono e riprovarono, in studio, ma era un continuo scuotere la testa. Robert si impegnava, ce la metteva tutta, ma non era ancora pronto. Pace. Iniziò da qui il tormento, il focolare di rabbia che, anni dopo, lo porterà ad insultare Martin-Smith in un brano sì e l'altro pure e a farsi beffe di Barlow quando nessuno lo vorrà più. "Io sono gay, Robbie lo era più di me. Tra noi, era lui il carattere dominante. Da qui la sua rabbia" (Martin-Smith, circa 2005). Apperò.

Mettiamola così: "Take That & Party" è un prodotto che non ha i requisiti per vendere e segnare un'epoca. E' un grido maldestro ma sonoro, un passo incerto ma che lascia impronta ancora fresca, un monito alle boy-band che, al tempo, stavano uscendo dal seminato, tipo Bros e New Kids On The Block. "Cmon cmon cmon cmon cmon take that! And party!" ("Take That & Party", traccia #13). Ho reso l'idea ?

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