Folk al femminile o folk femminile? Mhm, vediamo, dunque... Cos'è che avvicina una donna a questo genere? Pura predilezione, tradizioni di famiglia, una certa "intimità" che, grazie al genere, l'interprete/autrice può riprodurre? Le donne, si sa, sono la luna mentre noi maschietti saremmo il sole... C'entra niente la passione per le cose fatte a mano? Le decorazioni country per la mobilia, la passione per il découpage?

Ok, sto fornendo una versione dell'universo femminile da indurre chi di competenza alla censura della recensione ed alla "cesura" di qualcos'altro. Mentre io metto in mostra il lato più bieco della mia personalità, queste donne usano la musica per dare vita a qualcosa di credibile, vero-verosimile, suonato e mica campionato; cantato, mica intonato; proposto, non di certo imposto tramite tivù.

Non è il caso che dileggi dunque il folk (al) femminile, a maggior ragione quando si è continuamente bombardati da ragazze spezia, micette atomiche, ragazze lecca-lecca, ragazze succhia-succhia, bambole di zucchero, fighe di legno ecc.. Parlare di donne e di musica da classifica è un po' come proporre una medaglia: due sono le facce, inevitabilmente inseparabili. In alcuni decenni una delle due è risultata più splendente dell'altra, magari ad oggi il poppetto da classifica pianificato a tavolino è regolarmente in vantaggio, ma in generale ogni decade ha la sua degna rappresentante in ambedue i sensi. Prendere per esempio gli anni ottanta: so che un paragone per vendite, celebrità ed esposizione mediatica è pressoché improponibile, però quelli furono gli anni di Madonna quanto lo furono di Tracy Chapman, o no?

Giusto negli ottanta, però, si potè assistere all'emersione di un personaggio alquanto singolare: una diciannovenne, proposta in televisione a programmini e Festivalbars come fosse una cantante pop qualsiasi per via di quella sua bellezza, cristallina quanto austera, ottima per le copertine dei magazines di tutto il pianeta e per l'apertura di nuove decine di fans club. Cantava canzoni certo difficili per chi andava all'Arena di Verona per consacrarsi al culto di Rick Astley e di Nick Kamen, ma come costoro reggeva il palco e l'urto delle telecamere, e lo faceva proprio perché non si poteva smettere di guardare in quei suoi occhioni neri tristi e profondissimi. Un mix vivente, a quel tempo, tra la sensibilità artistica della folk woman e la velleità superstarresca di ben altre colleghe... Una specie di Tracy Chapman corteggiata quanto una Samantha Fox...

Indubbio che Tanita Tikaram, la diciannovenne in oggetto, inglese nata in Westfalia, con sangue indocinese, indiano e figiano nel mezzo, a quel tempo non avesse né la consapevolezza né l'attitude a certe pose ed a certe inquadrature, ma ben presto, immagino, dovette comprendere le regole del gioco per quindi confrontarsi meglio con la trappola in cui era finita: il successo aveva fatto fare il giro del mondo alle sue canzoni, è vero, ma la strada che esse fecero è meno della metà di quella compiuta dal suo viso. Ed essendo "figlia" di quegli anni non potè fare a meno di perdere consensi e fama, cosiccome non poterono tutti gli altri sottrarsi dall'identificarla quale "quella ragazza bella... che cantava le canzoni più tristi del mondo... col vocione... te la ricordi?" o, per chi se ne intendesse, ?quella di "Twist In My Sobriety"'...

Questo brano, appunto il più celebre della sua discografia, è contenuto nell'album d'esordio "Ancient Heart", datato 1988; si tratta pressoché di un disco di folk puro, addirittura all'irlandese nell'opener "Good Tradition" (maledette tastieracce anni ottanta: sono-dappertutto-sono!), di innocenza adolescenziale che si sposa ad una consapevolezza quasi esistenzialista. E "Twist In My Sobriety", uno di quei pezzi che ricordo con maggior favore di quella decade, è, a mio avviso (sans d'émuler aucune), puro esistenzialismo, drammaturgia canzonettistica. A ciò contribuisce non poco la voce di Tanita, quasi maschile come per la Chapman, profonda anche se non bassa, differente da quella dell'americana perché stilisticamente e tecnicamente inferiore (ai limiti del pessimo, direi) ma con un nonsoccheporcacciamiseriaccia di più seducente, elevato, sensuale.

Se nell'ottima "Cathedral Song" questa voce è autenticamente quella di un fratello, se va benone nel blues in punta di piedi di "He Likes The Sun" o nella trasognata "Valentine Heart", nei brani più allegri "appesantisce la leggerezza" (un po' come quando in autostrada lessi un cartello che indicava "rallentare la velocità"), fa precipitare i mezzi sorrisi, riappiattisce l'elettrocardiogramma. Suggestivo è ascoltarla incerta tra i fiati del jazz in un locale con troppa eco, in "For All Those Years", mentre indispettisce un po' allorquando, inevitabilmente, co' sto vocione che si ritrova raffredda l'ultimo brano, l'accorata "Preyed Upon".

Menzione ulteriore per le liriche: trovatemi un o una adolescente nel 1988 che, quando pensa a scrivere una canzone, pensa a metterci questo livello di scrittura.

Tanita fu un fenomeno un po' troppo singolare, per il comune pop da classifica, nonostante la sua bellezza ce ne accorgemmo un po' tutti, non è così? Ritornò presto nella penombra del cantautorato, ma complici furono anche dei dischi non all'altezza di questo. I suoi occhi continuano a risplendere di nero ancora oggi, e la sua voce (migliorata) è stata incisa fino al 2002, però stavolta tocca a noi andarceli a trovare; non è più tempo (da tempo), per lei, di successi/mercificazioni...

Un cuore antico, si direbbe, quello di Tanita; pertanto non a suo agio in un mondo troppo moderno come quello delle charts.

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