Il 2016 è stato un anno di thrash. Si sono riaffacciati sulla scena tanti (grandi) nomi dei tempi che furono, dai Metallica ai Death Angel, dai Testament ai Megadeth e attraversato l'Atlantico hanno di nuovo partorito Sodom e Destruction, in attesa del nuovo lavoro dei Kreator che chiude la "triade" tedesca.

Rimaniamo negli states: i Testament di Chuck Billy e Alex Skolnick sono quelli che a parere di chi scrive hanno saputo mantenere più in alto l'asticella qualitativa tra i vecchi nomi. I Megadeth si sono ripresi con "Dystopia" ma prima hanno passato un momento di buio pesto, i Metallica alternano anni di silenzio a uscite profondamente discutibili, gli Slayer sono riapparsi dopo anni. I Testament hanno saputo mantenere un'attitudine e una qualità di songwriting in grado di non farli scadere nel piattume che ha ormai destabilizzato il genere, tra lavori che riciclano il passato, aperture totalmente sconclusionate (leggasi "Super Collider" dei Megadeth), poche idee e confuse e delle registrazioni laccate e fin troppo in linea con i tempi. Quest'ultimo difetto è presente anche nel nuovo "Brotherhood of the Snake". Sembra che pulire i suoni, cristallizzarli in una sorta di perfezione computerizzata sia ormai diventato un diktat per musicisti e produttori. I caldi suoni degli eighties andranno perduti per sempre nel grigio ripetersi dell'asettica modernità.

Voliamo oltre la critica al sound di plastica per focalizzare il punto sul nuovo lavoro: BOTS è un disco che si posiziona sulla falsariga del precedente "Dark Roots of Earth". L'ambito è quello dello speed/thrash, e la sensazione è quella di una band che abbia ormai abbandonato le venature heavy melodiche presenti in album come "Souls of Black" e "The Ritual". Il sound si è via via appesantito, le sporadiche (e splendide) ballate come "The Legacy" o "Trail of Tears" sono sparite del tutto, in favore di un approccio più diretto, ma non per questo semplicistico nella costruzione dei brani. D'altronde con una coppia di chitarristi come Peterson e Skolnick sarebbe oltremodo imbarazzante e imperdonabile banalizzare la forma canzone. Eppure quando i Testament recuperano quel sapore di passato come in "Seven Seals" riescono a trovare quel pathos epico e quelle linee vocali che qua e là fanno difetto. Inutile dilungarsi sulla descrizione delle varie canzoni: il minutaggio è contenuto visto i tempi che corrono e come detto le variazioni sono praticamente inesistenti. La perizia tecnica e la maestria sono rimaste inalterate, Billy canta esattamente come 30 anni fa e l'invettiva "Centuries of Suffering" è lì a dimostrarcelo, ma si potrebbe citare anche l'ottima "The Pale King", altro esempio di thrash metal old school che si è adattato alla modernità.

Con queste nuove uscite dei big il discorso rischia di essere sempre il medesimo. Per alcuni sono finite le idee, altri riciclano dall'esterno del loro sound per sopravvivere, altri rimasticano la formula e quantomeno si salvano. Quest'ultimo è il caso dei Testament, formazione che tenta di resistere come un monolite alle intemperie che hanno disgregato il genere. Un disco onesto, che ha alcuni pezzi che farebbero invidia a tanti altri nomi tra i "grandi", ma che inevitabilmente finisce per rientrare nel discorso di cui sopra. Eppure è un bel sentire, soprattutto se rapportato ai tempi durissimi che sta attraversando il metal classico.

7/7,5

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