Ci sono artisti che, in vari modi, possono rimanerti "cari" nonostante il passare degli anni, il cambiamento delle preferenze e dei gusti, l'avanzare delle scoperte musicali. Alla mia poco veneranda età di ventitre anni, talvolta butto qualche ricordo ad una decina di anni fa, un piccolo metallaro sbarbatello con la t-shirt dei Black Sabbath ed i primi dischi (rigorosamente hard&heavy), comprati o copiati da amici, appoggiati sullo scaffale. Decidi di farti crescere i capelli e ti compri jeans neri e chiodo usato, disegni sul banco vari loghi di band ignobili e sfogli "Metal Shock" durante l'ora dedicata ai Promessi Sposi. Gran bei tempi.

Poi le cose cambiano, gli anni passano, ti rendi conto che due peli sul mento non sono una barbona pagana, che il chiodo puzza terribilmente di sedili in finta pelle nell'afa estiva, che gran(dissima) parte degli album metal selvaggiamente masterizzati non valgono neanche come spessore da gamba sbilenca del tavolo. Ti accorgi come esista anche il restante 90% della musica nel mondo (hai seguito Satanic Warmaster e Prostitute Disfigurement quando ignoravi King Crimson e Blue Cheer?), ed in generale ti senti, giustamente, un po' sfigato.

I Testament sono uno di quei gruppi che continui a seguire, sia per affetto, sia per effettiva qualità della musica che resiste alla prova tempo. Per chi scrive, il loro The Gathering è L'Album metal dei '90, benché The Formation Of Damnation (2008) non riuscì a ripeterne il successo, rivelandosi una discreta ma mestierante opera. Ora è il 2012, l'anno più mainstream del nuovo millennio, e prima della fantomatica Fine il gruppo californiano sforna questo Dark Roots Of Earth. Il primo ascolto è stato decisamente freddo: canzoni all'apparenza anonime, arrancanti, lucidate da una produzione ottima ma "standard" (l'amata/odiata Nuclear Blast). Però si nota più melodia, meno violenza fine a sé stessa a favore di mid-tempo ed urla comprensibili.

Assimilando con più pazienza il tutto (pazienza obbligata dai 19,90€ spesi) emerge la vera anima dell'LP: maggiore attenzione per la forma canzone, maggiore e migliore risalto alla sezione solistica (Alex Skolnik, dai trascorsi musicali eterogenei, mette in mostra capacità non comuni), affiancata alla solita ritmica mitragliante, in questo caso sorretta dall'ex-Death Gene Hoglan. E si delineano degli ottimi pezzi: dalla potentissima "True American Hate", alla title track, fino al singolo "Native Blood" ed alla conclusiva "Last Stand For Independence". Nove composizioni, (quasi) tutto gira a dovere, senza sorprendere: è il disco che il fan affezionato può consumare senza complimenti, mentre il quindicenne, abituato a growl incomprensibili e Bibbia in fiamme, potrebbe rimanere alquanto indifferente.

Purtroppo, e prevedibilmente, non abbiamo un nuovo capolavoro, ed il già menzionato The Gathering rimarrà probabilmente una vetta solitaria, ma dopo venticinque anni di carriera è difficile chiedere di più ad un gruppo di chiassosi metallari con la pancia, mogli e figli a casa durante i tour e qualche capello bianco di troppo. Un'opera che chi ha avuto almeno un periodo più o meno lungo di interesse verso la musica "pesante" potrebbe concedersi, ignorando o prendendo con un sorriso la copertina puerile, i titoli delle canzoni e le foto nel libretto con tanto di corna e chitarroni tamarri. Sempre meglio però delle cover raggelanti incluse nella versione da collezione (di Queen, Scorpions, Iron Maiden), per questo accuratamente evitata come la peste. Intanto in auto continua a girare senza sosta, e magari riesumo la maglietta dei Black Sabbath, dovrei trovarla da qualche parte.

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