Forse uno dei dischi più tristi dell'anno, sicuramente anche uno dei più intriganti ed affascinanti.

Nato come progetto solista del cantautore Peter Silberman, The Antlers sono ora un trio, ma "Hospice" è stato scritto e composto dal leader in un periodo di totale isolamento, durato quasi un biennio, in un appartamento di Brooklyn. E qui arriva l'ovvia digressione: è necessario starsene due anni da solo, senza parenti ed amici, per fare un buon disco? Parrebbe, dal risultato, che non sia imprescindibile, ma aiuti.

L'album, ristampato questa estate dalla Frenchkiss records, dopo essere uscito in versione auto-distribuita in primavera, è un concept. Narra le vicende, vagamente autobiografiche, di un rapporto di coppia vissuto all'interno del reparto di malati terminali di un ospedale newyorkese. Lei è malata di cancro alle ossa e lui la assiste, tra incubi, sofferenze, speranze infrante. Infermieri che accorrono mentre gli allarmi suonano, dottori che negano qualsiasi possibilità, mani che si stringono, concedendosi un barlume di felicità. Un tema difficile, ma affrontato con delicatezza e sobrietà.

La musica è un rincorrersi di drones, pianoforti acquatici, e voci angeliche (sì, in questo caso, la voce è musica). Provate a pensare ai Sigur Ros con Antony alla voce (e coloro che si sentono un po' orfani, dopo le recenti performances, non propriamente esaltanti, di questi, si sentiranno finalmente di nuovo a casa). Una modalità compositiva che ricorda spesso, per la struttura, gli Arcade Fire. Poche chitarre elettriche, ma fiumi di suoni che si intrecciano con chitarre acustiche e riverberi assortiti.

Segnalo infine quella che mi sembra una delle più belle canzoni ascoltate in tutto il 2009: "Kettering". Un reiterato accordo di piano, mentre la voce si sposta su melodie celestiali, si sviluppa in un crescendo tanto maestoso quanto sublime. Come il resto del disco, la tristezza lascia aperta la porta al domani. E questo connubio, di dolore e visione, mi pare infine il maggior pregio di The Antlers.

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