Introduzione:

Aristocrats è un trio strumentale chitarra/basso/batteria. Il genere è fusion. I tre ragazzi (ehm, ad oggi quasi cinquantenni, anche se non lo dimostrano), si sono conosciuti a Los Angeles ad una fiera musicale nove anni fa… qualcuno li ha riuniti su di un palco per una jam session che ha finito per tirare avanti oltre le tre ore: era subito è scattata l’empatia, la fratellanza, la passione.

Il personaggio di punta è il chitarrista Guthrie Govan, semplicemente il miglior suonatore di chitarra vivente al momento (lasciando perdere i vecchi dinosauri sessanta/settantiani ancora di questo mondo ma tutti più o meno scoppiati se non pensionati).

Inglese, alto, magro e con due manone alla Hendrix, chioma rossastra e ispida alla metallaro fuori tempo massimo, Govan è un compendio vivente e clamoroso dello scibile umano sulla chitarra elettrica, di tutto quello che è stato inventato e sviluppato sulle sei corde a partire da Robert Johnson e B.B.King per passare a Clapton Page Beck Blackmore Fripp Gilmour e ancora Zappa Van Halen Satriani Vai Holdsworth. Tracce di ognuno di questi si possono immaginare all’interno di ogni singolo brano o assolo. A comporre però uno stile suo, intenso anche se virtuosistico, derivativo ed insieme peculiare.

Tutti i timbri e regolazioni di amplificatore possibili, tutti gli attacchi alle corde con le dita e col plettro con o senza leva del tremolo, tutte le sfumature di tocco e le velocità di esecuzione appartengono profondamente a questo signore epperò, miracolo!, assieme al virtuosismo e alla varietà è presente un’assoluta intensità, sia lirica che melodica e talvolta pure ironica. Govan è un chitarrista funambolico e insieme “caldo”, comunicativo, passionale. Ogni nota che prende non è solo precisa e difficile e sorprendente, è proprio musicale, intelligente, nutriente, acculturata.

Forse parlo da musicista (seppur dilettante). Sicuramente una certa esperienza tecnica permette di mettere a fuoco meglio quello che succede con gli Aristocrats, ma sono convinto che l’arte di Govan sia presente e fiorente ed evidente a chiunque non sia prevenuto e consideri senza cuore tutta la musica virtuosa.

Ma non è che i due suoi compari stiano a guardare… il batterista tedesco Marco Minneman è una macchina del ritmo perfetta e goduriosa. Fra l’altro sfoggia un suono presente e realistico al massimo livello che io conosca. I suoi tamburi e piatti sono ripresi (e colpiti…) con perfetta naturalezza… sembra di averlo davanti alla faccia, nella stessa stanza dove si ascolta.

Stessa cosa per il bassista americano Bryan Beller, altro prodotto di quelle scuole strumentali ad alto livello di cui da tempo il rock si è dotato. Sia melodico che trascinante, preciso allo sfinimento, predilige giustamente suoni profondi e cupi per il suo ampli, si da non interferire con la chitarra di Guthrie, anche nelle fasi più congestionate.

Contesto:

Dicevo che i tre nel 2011 si sono conosciuti, piaciuti a se stessi ed agli appassionati presenti a quella prima sessione comune ed hanno deciso perciò di produrre musica insieme. Pochi mesi dopo era già pronto quest’album qui, che è il primo dei quattro sinora pubblicati. La chimica immediatamente trovata e l’abilità e precisione strumentale hanno fatto sì che in quindici giorni questi nove brani sono saltati fuori, arrangiati perfettamente e suonati da manuale, tutti e tre assieme senza quasi sovra incisioni.

Essendo tutti compositori, hanno lestamente e democraticamente scelto tre temi ognuno fra quelli a loro disposizione per dar vita a nove strumentali strutturati grosso modo alla maniera jazz: introduzione, tema, variazioni e assoli, ritorno al tema e conclusione.

Momenti topici:

Parlo solo del mio brano preferito, il più emozionante del lotto e cioè la conclusiva “Flatlands” (composta dal bassista Beller): arpeggino introduttivo lento lento in stile pinkfloydiano, non particolarmente pregnante, ma subito dopo il brano si porta in quota con una sequela di accordi in minore staccati sapientemente, bagnati di chorus, mossi ogni tanto da leggerissimi colpetti di leva, da virtuosi vibrati, da piccoli fraseggi di collegamento.

Fino all’assolo di Govan, collo stesso suono pulito di chitarra, solo leggermente compresso e condito di un filo di eco. Ogni nota è presa colla massima cura, il fraseggio non è una sequela di licks ma è un discorso, va da qui a la, da su a giù, si intensifica e si rarefà, corre e frena… parla!

Finché riprende gli stacchi di accordo iniziali, eleganti e appaganti nel loro risolversi in tono maggiore dopo la sequela di tonalità minori… vecchio trucco di millanta composizioni, ma sempre valido e perfetto per le nostre orecchie occidentali; la tensione del modo minore e il sollievo, l’appagamento del passaggio al maggiore.

Giudizio finale:

Musica per musicisti, innanzitutto… o almeno una certa “puzza al naso” che ci vuole proprio, per godersela con questa roba. Niente di elitario, parlo di uno snobismo leggero, magari intermittente… nel senso che subito dopo ci si può rifare con della bella roba “mal” suonata, con rispetto parlando, a’la Jefferson Airplane o Lou Reed o Bob Dylan.

Certo, manca la voce, e la musica senza un cantato e un testo è sempre in qualche modo zoppa. Anche se appassionata e spumeggiante come questa degli Aristocrats.

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