E alla fine ci sono andato…e ne è valsa la pena.
Gilmour li ha riconosciuti come i migliori al mondo e la tanta curiosità nel vederli dal vivo, era incolmabile.
I marsupiali poi, contano anche di aver suonato alla Royal Albert Hall di Londra e al Glastonbury Festival, veri e propri luoghi sacri del rock. Un evento così non si ripete facilmente, se non nel corso di parecchi anni, e chi aveva la possibilità di andarci non ha perso l’occasione.

Un palchetto, luci onnipresenti, schermo ovale e una cornice di pubblico che tra curva e sottopalco, avrà credo raggiunto le cinquemila teste. L’atmosfera da stadio che si era creata e il lavoro dei tecnici sul palco, lasciavano presagire un ottimo proseguimento di serata. E dopo mezz’ora di ritardo la conferma è arrivata.
Ologrammi e immagini allucinogene scorrono sul palco, anticipando l’entrata dei musicisti. Inizia lo spettacolo.
Si ha subito l’impressione che il London Times, quando li ha definiti l’unico e vero tributo al mondo dei Pink Floyd, non si sbagliasse.
Luci, stralight sugli strumenti, immagini stravolgenti, suoni, voci, pilastri fluorescenti, fumo, allucinazioni, un susseguirsi di colori vivaci e tristi, frasi pragmatiche: tutto diventa tremendamente psichedelico!

La musica incomincia ad entrare dentro e gli occhi sono ipnotizzati da quello schermo ovale che trasferisce ai sensi, strane forme di pensiero e tracce di contorte menti umane.
I cangurotti riportano in vita il mito della Luna più famosa del mondo e curano i particolari minuziosamente. La figura più simpatica è il sax: un “omo de panza” vestito da vero blues man, con tanto di cravattone alla Louis Amstrong e capello da boss siculo-americano. Oltre a lui, gli Australian sono composti da altri cinque individui, di età tra i 35/40 anni, e da due coriste (molto carine tra l’altro).
Ed è proprio una delle due coriste che raccoglie i primi applausi con la sua performance s-t-r-a-t-o-s-f-e-r-i-c-a in “The great big in the sky”. La cover band si spara tutto il “The dark side of the moon” insieme a qualche altro episodio pinkfloydiano.
Da applausi “Time” tra i tanti ingranaggi e ticchetì, “Money”, “Eclipse”,“Shine on you crazy diamond” e la grande “One of these day”. Ma tutti i pezzi, coverizzati perfettamente, hanno riscosso successo e agitato il battito delle mani. Sin fino alla conclusione con “Antother brick in the wall”, cantata e pogata da tutti, e il bis finale con “Wish you were here” e “Comfortably Numb”. Ogni brano è estrapolato dal gruppo attraverso le ottime capacità di quest’ultime, soprattutto quelle dei tre frontman, tutti con la capacità di cantare immense canzoni.

Uno show che colpisce per lo spirito evocativo che possiede, e che in quasi tre ore di spettacolo, non smette mai di stupire ed onorare, anche nelle pause (peraltro abbastanza lunghe) e nei passaggi di matrice poetica, storica e politica che vengono ricreati.

Non posso dire di aver assistito ad un concerto dei Pink Floyd e né si possono fare paragoni utopistici, ma con un po’ di immaginazione (..qualche funghetto..) e lasciandosi trasportare dall’atmosfera psichedelica, si richiamano alla mente le storiche figure di Waters, Wright, Gilmour e Mason, che tanto hanno dato alla musica e ai tutti i suoi ascoltatori.

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