“Revolver” il più grande. “Sgt. Pepper” il più bello.

Prima ancora che un capolavoro,“Sgt. Pepper” è gruppo in stato di grazia, dove ognuno – soprattutto Lennon – dimentica se stesso in favore di qualcosa di più grande. Per qualche oscuro motivo, in quella primavera del 67, il suo spirito aggressivo si rasserenò come non accadeva da anni. Da quel momento mise a disposizione la sua genialità per realizzare le idee di Paul. Un atto di umiltà straordinario, senza il quale “Sgt. Pepper” non sarebbe quel sereno e gioioso documento che è, e che, da questo punto di vista, lo pone nettamente sopra “Revolver”.
Perché, se, tecnicamente parlando, è “Revolver” il punto più alto della carriera dei Beatles,“Sgt. Pepper” lo supera per lo spirito entusiasta con cui venne composto e registrato. Un entusiasmo in immortalato insieme agli innumerevoli strati di suoni straordinari e originalissimi che lasciarono incantati gli ascoltatori dell’epoca. Si racconta che Jimi Hendrix lo ascoltò per dodici ore filate.

E pensare che non si doveva neanche fare. Appena concluso l’ultimo concerto al Candlestick Park di San Francisco (29 Agosto 1966), George Harrison rilasciò un’intervista che lasciava poco spazio all’immaginazione: “Basta, non sono più un Beatle!”. Era appena stato pubblicato “Revolver” e mentre il mondo scopriva i Beatles come artisti e non più come fatuo fenomeno di costume, uno di loro stava per dare un taglio a tutto. Anche i (tele)giornali italiani dedicarono qualche servizio all’intervista.

I quattro capirono che, dopo tre anni folli tra studi di registrazione e concerti, era il caso di una pausa di riflessione. Così, mentre McCartney era impegnato in una colonna sonora, Lennon andò in Spagna per recitare nel film di Dick Lester “How I Won the War”. Lì, prese la chitarra e cominciò a mettere su carta i propri (confusissimi) pensieri. Ormai era diventato un assiduo consumatore di LSD e conosceva le visione indotte dall’acido. Ecco allora che la sua solita maliziosissima ambiguità mise insieme i cerchietti colorati che vedeva nei suoi  trip con le fragole di “Strawberry Fields”, il luogo dove andava da bambino a vendere le limonate con i suoi amichetti. Ritorno all’infanzia e voli con l’acido. Due modi diversi per descrivere un unico struggente desiderio: fuggire dalla realtà con le sue responsabilità. John scrisse il suo (terrificante) flusso di coscienza e la sua alienazione accompagnato dalla sola chitarra acustica.Tornato a Londra, cantò la canzone in quella forma minimale ad un incantato George Martin. I cinque si misero al lavoro e cominciarono a mettere suono. Lennon, alcuni mesi prima, aveva composto un capolavoro ipnotico come “Rain”, e allora riapplicò l’idea a “Strawberry Fields” con un tempo estremamente più lento. McCartney suggerì di aggiungere un mellotron. Poi vi si aggiunse la batteria (forse troppo invasiva). Nella seconda parte, George Martin fece incidere i fluttuanti e lugubri violoncelli che resero il brano il più grande capolavoro psichedelico-orchestrale della storia dei Beatles: sublime artigianato sonoro che lasciò e lascia ancora senza fiato.

Paul non stette a guardare. Voleva fare qualcosa che fosse al livello di “Strawberry Fields”. E “per sfidare John” decise di fare anche lui qualcosa di simile, un altro richiamo (questa volta ottimistico) all’infanzia. Lavorò intensamente per tutto il Dicembre 1966. Partì dai suoi soliti accordi di piano ripetuti (con le solite ingegnose varianti) e poi vi aggiunse un effetto di batteria “trattata” che ha fatto storia, insieme ad un magnifico assolo cornetta, ispirato ad un concerto di Bach, per eseguire il quale fece chiamare un musicista professionista. Era nata “Penny Lane”, completata il 27 Dicembre 1966. Molto più convenzionale di “Strawberry Fields”, ma comunque un’altra splendida canzone.

Due capolavori pronti per il nuovo disco in appena un mese. Non male. Ma per il sacro “business”, le due canzoni vennero pubblicate come singolo nel Febbraio 1967, perdendo ogni possibilità di entrare a far parte del disco più famoso e gradevole dei Beatles: “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”.  

Questo strano titolo è un sarcastico richiamo degli scarafaggi agli improbabili e chilometrici nomi dei gruppi dell’Est Coast degli Stati Uniti. All’inizio del 1967, McCartney aveva dichiarato pubblicamente la fine dei concerti dei Beatles – anche TV7, in Italia, riprese l’intervista. Allora, perché non mettere un concerto in un disco? Un concerto di un gruppo di bontemponi con un buffo nome. Idea magnifica, anche se purtroppo gli applausi che sentiremo all’inizio della prima traccia e della seconda, li ritroveremo solo nella penultima (la reprise), gettando alle ortiche un’idea davvero gustosa. “Sgt. Pepper” sarebbe stato il primo (e unico) album di inediti in forma live della storia.

Si cominciò a registrare la title-track il primo Febbraio e occorsero dieci take prima della versione definitiva. Considerata come una simpatica presentazione del gruppo, in realtà si tratta di un gioiellino grazie alla eccellente performance vocale di McCartney, i tromboni (prima cassa), e il magnifico lavoro (ironico) della chitarra (seconda cassa).

Due noticine di chitarra ci introducono Billy Shears (nome dell’alter Ringo). Gli altri nomi non ci sono pervenuti: che errore banale. La canzone parte con i soliti accordi di piano ripetuti che sostengono il cantato. A  0:40, Ringo (che in “Sgt. Pepper” ci lascia un contributo magnifico) fa il suo piccolo assolo di batteria, quasi ad indicare che Billy è lui. Poi il riferimento alle droghe (“I get high” -  “Mi tiro su”), e poi la famosa domanda-risposta di Lennon:

-    Cosa pensi quando spegni la luce?
-    Non lo so, ma so che è una cosa mia.

Mentre Paul e John composero questo pezzo (29 Marzo 1967), Paul fece vedere a John il testo di “A Fool on the Hill”. Lennon lo trovò ottimo. Purtroppo non disse a Paul di lavorarci e metterlo sul disco. Cosa sarebbe “Sgt. Pepper” con dentro “Strawberry Fields”, “Penny Lane” e “The Fool on the Hill”?

Silenzio e poi un etereo giro d’organo di poche note (“che sarebbe piaciuto anche a Beethoven” secondo George Martin) ci trasporta subito in un altro mondo, nel mondo di Louis Carroll. Solo che oltre lo specchio non troviamo Alice, ma Lucy. Le inutili polemiche sul titolo, che sarebbe un acronimo di LSD, non ha impedito al brano di diventare uno dei pezzi più celebrati di Lennon. Il figlio di John, Julian, fece vedere al padre un disegno con Lucy – forse la sua fidanzatina – in un cielo con le stelline, quelle stelline che anche noi disegnavamo da bambini. È probabile che Lennon, in quelle stelle “volle” vedere dei diamanti, per creare il famigerato e malignetto acronimo. Se è molto probabile che John volle creare il giochetto di parole – nessuno è mai stato secondo a Lennon nei giochi di parole – di sicuro la canzone non fu ispirata dalla droga, come lui stesso disse, in modo molto sincero in tante interviste: “Giuro su Dio, Gesù, Budda e Maometto che “Lucy in the Sky with Diamonds” non è stata scritta sotto acido”. “Lucy in the Sky with Diamonds” va presa per quel che è: una meravigliosa canzone psichedelica per bambini. La più bella canzone per bambini di sempre. Dentro la barca entri anche  tu e anche tu cominci a  vedere “cieli di marmellata”, “fiori di cellophane”, “cavalli a dondolo che mangiano torte di marshmallow”, “i fiori altissimi che ti sovrastano”, “taxi di giornali”, “portelli di plastilina” e “le cravatte di vetro”, fino a quando anche tu, dopo tante peripezie, raggiungi la ragazza con gli occhi caleidoscopici. Una canzone che avrà reso tanto felice il piccolo Julian. Una canzone amata dai piccini e anche dai grandi, e tra questi grandi c’era anche Frank Zappa che, invece dell’organo, la suonò in un concerto (addirittura come canzone di chiusura) con la chitarra elettrica, creando un effetto sognante, se possibile, ancora più bello dell’originale. Su YouTube potete verificare.

Tornati al di qua dello specchio, si sentono alcuni accordi ripetuti di qualcosa che sembra una chitarra pulita alla The Edge. I musicisti dell’epoca ne rimasero impressionati. Per ottenere quel suono – oggi riproducibile al computer ma all’epoca un’assoluta novità – i Beatles aprirono un pianoforte a coda, presero un punteruolo da ghiaccio, picchiarono sulle corde e campionarono il suono. Fu questa voglia di sperimentare e lasciare ai posteri qualcosa di diverso che fece grande il sergente Pepe. “Getting Better” vede l’alchimia del gruppo al suo massimo. Fantasioso basso (quasi smorzato, profezia di quello di “Dear Prudence”), perfette note di chitarre, e un magnifico Ringo (che, ascoltando la canzone ultimata, si accorse che mancava qualcosa e allora aggiunse i suoi fantastici tocchi di charleston, il più bello di tutti a 0:42). Il testo è, a nostro avviso, completamente di Lennon. In quel periodo John si sentiva davvero meglio e qui lo dice chiaramente: “A scuola ero matto. I professori mi assalivano con le loro regole. Ero arrabbiato, picchiavo le donne. Ma ora ho trovato “la parola” (l’amore) e ho finalmente ascoltato”. Il riferimento a “The Word” (la sua canzone di “Rubber Soul”) è molto chiaro.

L’intro del pezzo successivo sembra quello di una canzone di “Pet Sounds”, a cui Paul McCartney (nel documentario “The Making of Sgt. Pepper” (1992), prodotto per commemorare i 25 anni del disco) farà il suo sincero omaggio – senza le esagerazioni dei critici mediocri che hanno visto “Sgt Pepper” come copia-carbone del lavoro dei Beach Boys. Il piano si unisce ancora ad un ottimo Ringo sul charleston, e poi il lavoro di chitarra che sembra essere così simile alla seconda parte di “Taxman”. “Fixing a Hole” è un’espressione che si trova (dal punto di vista della pronuncia) in “A Day in the Life” (“Now they know how many holes it takes to fix the Albert Hall”) e McCartney (che amava molto le stuzzicanti le provocazioni di Lennon) non volle essere da meno. Il testo sembra essere la seconda parte di “Getting Better”, anche se più calma e rilassata: “Sto riparando un buco (interiore)... Non mi importa se sono in errore o meno. Quello che conta è che mi sento bene. Vedo le persone combattere tra loro, e nessuno vince litigando. Sto pitturando la mia stanza (interiore) in modo colorato… Vedo gente stupida corrermi vicino (riferimento alla gente che si affanna di “I ‘m Only Sleeping”). Sto facendo tante cose a cui prima non davo alcuna importanza…”.

“She’s Leaving Home” è una delle migliori canzoni mai scritte dai Beatles. All’arpa introduttiva si unisce il violino che accompagna bene le parte drammatiche del testo che racconta la storia di una ragazza che scappando di casa, distrugge moralmente i genitori che nella canzone discutono: da una parte la madre (interpretata da McCartney) che si abbandona allo sconforto; dall’altra il padre (interpretato da Lennon con i suoi magnifici back-vocals) che invece rimprovera la figlia.

“Being for the Benefit of Mr. Kite” è il brano psichedelico del disco. La canzone sulle strofe si fregia dell’ancora eccellente lavoro di Ringo al charleston. La grandezza della canzone si rivela tutta nell’intermezzo psichedelico. Sembra che questo straordinario pezzo nacque da un mix casuale di nastri tagliati, rimontati in modo casuale e rovesciati. La cosa sembra inverosimile vista la coerenza sonora del frammento. Sia come sia, Lennon disprezzò questo brano, musicalmente degno di “Revolver”, per il testo insignificante che ripete le parole di un poster di uno spettacolo circense del secolo scorso. Con meno pigrizia avrebbe scritto un testo degno della musica e il suo giudizio sarebbe stato diverso.

Musica indiana e musica popolare nella sorprendente “Within You, Without You”. La batteria è sul legno e questo ne aumenta l’originalità. Il suono vibrato simile a una tambura si unisce il violino nel sottolineare la solennità del testo. Forse la prima canzone pop che parla della vita oltre la morte:“Ci illudiamo fino a quel momento estremo, quando ormai è troppo tardi”. Un testo che venne lodato anche ad un professore di taoismo dell’università di Cambridge.

Si passa ad una delle più sottovalutate canzoni dei Beatles: “When I’m 64”. Composta da Paul, forse, prima ancora di conoscere John (1957), veniva usata in sin dai tempi del Cavern. Il brano è un magnifico vaudeville, di straordinario spessore, in un dialogo tra un uomo e la sua amata, a proposito del loro futuro insieme. I clarinetti stupendi si uniscono all’accompagnamento di Paul al basso, prima del cambio sorretto dal piano e dai magnifici e sobri cori di Lennon (davvero gradevolissimi).

“Lovely Rita” parte con un convenzionale giro di chitarra a cui si unisce l’estatico “Ah..” di Lennon, a rappresentare quello a cui l’autore vuole andare a parare: “come to take a “tea” with me” – “Tea” in slang significa “spinello”. Prima l’erba, poi “Sitting on a sofa with a sister or two”.  I Beatles in questo inoffensivo riempitivo riescono a dire tutto quello che era nella loro testa nel 67: sesso e droga. Memorabile l’assolo di pianoforte e memorabili i suoni “grattati” che si sentono a 0:40 e a 1:35 che furono ottenuti prendendo un pettine e strofinandolo da qualche parte. Bellissimi, ancora una volta, i cori di Lennon, che verso la fine si abbandona ai gemiti sessuali fino al gemito dell’orgasmo raggiunto. Ecco a voi l’ innocente canzonetta.

“Good Morning Good Morning” è un altro di quei brani qualificati da Lennon come “spazzatura”. Mentre negli altri casi, John può essere giustificato per i pessimi testi, qui il testo è uno dei suoi migliori in assoluto. Un quadro impietoso della sua annoiata vita familiare, raccontata in terza persona, e che non pecca certo di ermetismo: “Nulla da fare per salvare la sua vita. Nulla da dire tranne come sta il suo bambino. Nulla da fare, tocca a te”. John arriva anche a rivedere la sua vecchia scuola e scopre che nulla è cambiato. Ecco la disperata giornata della più celebre rockstar del mondo in un giorno in cui non doveva andare in studio a registrare. Musicalmente la canzone è un capolavoro ritmico (con continui cambi di tempo). Definire un brano del genere “spazzatura” significa solo due cose: o che le droghe avevano tolto a John ogni senso della realtà (MacDonald in “The Beatles” definisce  il Lennon post 66 “un rottame mentale”), oppure che l’idealista intollerante prendeva in considerazione solo i suoi capolavori, qualificando tutto il resto come sterco.Si può scrivere grande musica senza comprenderne il valore.

Le voci degli animali preparano alla gustosa reprise, geniale idea di Neil Aspinall, che all’inizio suscitò qualche riserva in Paul e John! Senza questa reprise “Sgt. Pepper” non sarebbe lo stesso con cui la banda del sergente Pepe saluta il pubblico preparandolo al grandioso finale.

La noticina prolungata della reprise, si unisce alla splendida pennata di chitarra acustica che apre “il” capolavoro del disco. Una specie di solenne rispetto entra nell’ascoltatore. Il pianoforte acuisce ancora di più la solennità. La voce di Lennon nella prima strofa è ancora normale, quasi commossa per la morte (reale) di un caro amico di appena venti anni (Tara Browne), “ma anche se la notizia era piuttosto triste, non ho potuto fare a meno di ridere” –  antifona perfetta del tema della canzone: l’erba. La seconda strofa è melodicamente identica, con un riferimento alla partecipazione di Lennon al film “How I Won the War”, ma nei fatti un nonsense, che lascia intendere che John non è più in sé; è ormai sballato e vorrebbe far sballare anche l’ascoltatore, e a questo invito allo sballo segue la sua rappresentazione musicale: un assordante crescendo orchestrale. Poi di nuovo lucidità nel racconto di una giornata normale (un frammento di McCartney), prima di una (nuova) “fumata” che riporta l’autore “in un sogno”. Poi una notizia assurda (il preciso numero di buche trovate nella città di Blackburn) sulla quale ironizzare (ancora più se si è sballati) e soprattutto facendo qualche malizioso e facile giochetto di parole (“…. holes to fix the Albert Hall”). Dall’erba al buco… E infine di nuovo l’autore che sballa (con un nuovo crescendo orchestrale). Un capolavoro musicale-testuale assurdamente coerente. Un binomio testo-musica che la dice lunga sull’ intelligenza di Lennon e McCartney nel dire l’indicibile nascondendolo dietro frasi insulse (come in “Lovely Rita”).   

“Sgt. Pepper” e “Revolver” potevano essere il trampolino di lancio dei Beatles dal pop-rock al  “rock” (brutto termine, ormai entrato nell’uso, per indicare la musica popolare tecnicamente raffinata, e non di supporto a belle melodie). Invece “Sgt. Pepper” rappresenta, purtroppo, il testamento della forza di una collaborazione che ci ha lasciato probabilmente il più grande pop-rock (psichedelico) che la storia della musica ricordi. Dopo “Sgt. Pepper”, la storia dei Beatles sarà una triste morte al rallenty.

Un anno dopo, con un Lennon eroinomane perso dietro a Yoko Ono, un McCartney arrogante autonominatosi  leader del gruppo e un Harrison sempre più rancoroso per la sufficienza degli altri due nei suoi confronti, gli scarafaggi composero l’Album Bianco, dove, dopo i passi da gigante del 66/67, ritroviamo, tristemente, i Beatles dei primi sei dischi, con i loro soliti immortali capolavori melodici (“Blackbird”, “Julia”, “Dear Prudence”, “Hey Jude”, “Goodnight”), un’opera d’arte in forma canzone (“While My Guitar Gently Weeps”), un grande esperimento da studio (“Revolution 9”), il tutto condito da insipida e innominabile mediocrità.

Alcune informazioni qui riportate sono prese dal sito di Luca Biagini, www. Pepperland.it, che vi invito a consultare per analisi tecniche di ben altro livello.

Interessante anche il documentario “The Making of Sgt. Pepper” (1992), pubblicato per commemorare i 25 anni del disco.

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