Mai abbastanza popolari per essere celebrati da un pubblico più vasto e rimasti (un nome, un destino) una band praticamente di culto, i Cult di Ian Astbury ebbero in "Love" una felice ispirazione che li rese un ponte ideale tra gli anni '80 e gli anni '90; prendendo a prestito un approccio lirico ed iconografico darkeggiante e trasformandolo in qualcosa di simile al rock che avrebbe spopolato di lì a poco con le berciate dei Guns'n'Roses e quindi con il grunge. Il tutto, con evidenza, rimasticando ad arte quelle due o tre basi essenziali del rock-blues più aggressivo che avevano visto nei Led Zeppelin gli alfieri più in auge di un'epoca che il punk sembrava aver sepolto.

In anticipo sui tempi, dunque, gli anglo-americani Cult avevano fatto tesoro della lezione dell'ambiente post-punk rilanciando il rock puro dei riff immediati e delle "chitarre d'aria", strizzando l'occhio a tematiche esoteriche in chiave western (imitati di lì a poco dagli eccezionali Fileds of the Nephilim e dai Mission) e riabilitando la presenza dinamica del front man di carisma, che spesso e volentieri gli anni '80 negavano o ridmensionavano, preferendo un'omogeneità ombrosa e granitica (vedi Andrew Eldritch).

Ian Astbury, agghindato a metà tra il pellerossa, lo sciamano e il pistolero raffinato, era la voce del magniloquente "Love": album di raro equilibrio in cui lo stesso tema ritmico e melodico sembra svilupparsi in vari capitoli con una narrazione lineare e sintetica (i testi contano sempre pochissimi versi) e alterna bagliori di martellante rock-style da fumi e stivali a punta a penombre di struggenti ballad. mai abbastanza originali per gridare al miracolo, ma così incisive e ben strutturate da invogliare chiunque ad agitare la testa e le mani.

Nessun virtuosismo gratuito, benchè le chitarre di Billy Duffy non rinunciassero mai a distorsori ben saturati e ad escursioni tipicamente Zeppelin. Basso e batteria calibrati, qualche tessitura orchestrale azzeccata e bei contrappunti vocali alla voce misteriosa e maschia di Astbury. Voce che canta di lupi e deserti, di piogge liberatorie, di uomini-ombra e di sacerdotesse del sesso, di visioni mistiche e mitiche fenici.

Insomma, una miscela di rock puro spruzzata di suggestioni oniriche, che solo se ascoltata può rendere l'idea del perchè riuscì a far breccia in un periodo in cui certi clichè facevano storcere il naso. Tanto è vero che i puristi del suono gotico e dark tendevano a criticare certi concessioni all'assolo; mentre i metallari contestavano l'eccessiva regolarità melodica. Eppure... eppure tutti non disdegnavano "Love" e le sue atmosfere coinvolgenti. A cominciare da quella memorabile della hit-single "Rain", che resta il perfetto assoluto concentrato del Cult-style e si è poi riverberata in tutti gli album successivi della band. E proseguendo con il sincopato di "Big Neon Glitter", il martellante quattro-quarti di "Hollow Man", lo struggente misticismo di "Brother Wolf Sister Moon" e l'esagerato wah di "Phoenix".

Incapaci di ripetersi (se non nel senso deteriore della parola) e vessati da produzioni insistentemente retrò, i Cult abbandonarono poi la vena onirica e lasciarono che "Love" diventasse la loro più fulgida icona discografica: paradossalmente un prodotto degli anni '80 con le radici nei '70 e la testa già nei '90.

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