È una caldo martedì di giugno, nel 2003. Siamo agli sgoccioli di un certo movimento e di una certa scena musicale quando allo sceriffo della contea di Hidalgo giunge un pacco tra le mani. Subito scartato. Le impronte parlano chiaro. Sono di Simon Alexander, Nick Anzaldua, Phil Chairez, Robert Godinez, Toby Perez, Jason Stoll e Charlie Vela meglio conosciuti come The December Drive. Il loro intento è chiaro: “Hand Like Guns and Crashing Sounds”. Oltre quello, solo il numero di file.

Non ci sono altre scelte, le informazioni su di loro sono risicatissime e per capire meglio non resta che infilare il disco nel lettore e schiacciare Play.

Bastano pochi minuti di “1422” e realizziamo che siamo di fronte a una miscela post-rock e Midwest-emo, con una vena di Appleseed Cast e un’iniezione dei migliori Thursday.

La maggior parte dell’album è cucita su passaggi strumentali intessuti con sapiente maestria da spruzzate di scream mai protagonista, mai eccessivo e mai fastidioso che si adagia mestamente in seconda linea. Questo fa si che il mood del disco dia sempre un certo senso di nostalgia e malinconia.

Le canzoni non sono mai banali ma sono sempre ben costruite, la loro durata si assesta mediamente sui 5 minuti e proprio quando siamo al giro di boa ecco partire “The Great Awakening”, una suite di 14 minuti che mette in vetrina la capacità della band di passare con disinvoltura da una melodia di pianoforte appena sommessa a breakdown e scream. Il tutto intrecciato - in particolare da metà canzone in poi - da un tappeto di chitarre veramente squisito.

Tracce come “Buffalo Wing Diplomacy” e la splendida “No Remembering” si issano e allo stesso tempo di disintegrano al momento giusto, con una miscela di intrecci strumentali che culminano in deflagrazioni post-hardcore e riff sporchi e struggenti.

Da annoverare i quasi 3 minuti di “& Regret” in cui le influenze di GodSpeed You! Black Emperor (et similia) sono più che palesi e lo splendido lavoro strumentale di “And Now We Will Justify Your Criticism”, in cui tutto si accende in modo scintillante per poi spegnersi in un fade-out di distorsioni e urla sguaiate.


Cala il sipario e i ragazzi texani tolgono il disturbo. Proveranno a ritornare discretamente tra il 2006 e il 2013 ma il mondo - che nel frattempo non si è mai troppo accorto di loro - non ha più spazio per un manipolo di (ex) 20enni fin troppo genuini che hanno dato vita ad un’urgenza artistica onesta, sincera e per nulla artificiosa. Che si consolino però. Meritano di diritto il premio per l’album più “overrated” del nuovo millennio.


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