Stravagante copertina per la terza pubblicazione discografica della formazione californiana (anno 1973): il quintetto vi è immortalato insieme al proprio manager, tutti e sei agghindati con costumi ottocenteschi mentre montano una carrozza con tanto di quadriga ed immortalati ai piedi di uno di quei tratti dell'autostrada che dalla Sierra Nevada scendono verso Los Angeles, sciaguratamente crollati qui e là a seguito del fortissimo terremoto del 1971.

L'album è in assoluto fra quelli a cui sono più legato musicalmente, ma sarebbe meglio dire sentimentalmente: ero a suo tempo alle prime armi con la chitarra e questi quaranta minuti di rock americano doc mi diedero tante di quelle lezioni da consentirmi uno scatto in avanti prezioso, anzi decisivo in quanto ad apertura mentale e consapevolezza chitarristica. Per fortunata ispirazione acconsentii a barattare con un amico, alla pari con un noiosissimo ellepì del pianista finto jazz Eumir Deodato, questo autentico manuale della chitarra (specialmente acustica) per autodidatti.

Conoscevo fino a quel momento abbastanza superficialmente i Doobies, come tanti dato che fino a poco tempo prima avevano impazzato in radio e discoteche col loro primo hit mondiale "Long Train Running", oggi intramontabile evergreen. Il fatto che tale brano fosse compreso in questo disco era già più che sufficiente per spingermi allo scambio, che però si rivelò da subito ben più prezioso... buona parte del resto delle canzoni mi risultarono, da lì a sempre, ancor  migliori ed interessanti!

Siamo in pochi in Italia a reagire estaticamente all'arte di questa banda che mischia con californiana leggerezza e asciutta perizia tecnica una buona dose di rock, una generosa porzione di rhythm&blues, episodiche ma talentuose disgressioni nel country e fin nel bluegrass, il gusto per i cori gospel, i soliti preziosi insegnamenti del jazz, del blues, del rock'n'roll, dei Beatles. Forse perché gli anni di loro maggior successo commerciale e mediatico, quelli della seconda metà dei settanta, coincidono con la fase più ruffiana e sciapa della loro discografia. Molti, troppi non hanno mai sperimentato quello che ha da offrire il loro periodo migliore, che va dal secondo disco "Toulouse Street" del '72 al quinto "Stampede" del ‘75  (a parte la "Long Train Running" ben nota anche ai sassi) e ancor meno gli ultimi quattro, disseminati fra anni novanta e duemila, nei quali è avvenuta la matura e consapevole restaurazione dello stile e dell'approccio degli inizi, col ritorno in formazione del cantante e compositore principale Tom Johnston e una sostanziale tenuta della loro capacità di scrittura, nonché freschezza ed energia, addizionate da un aumento esponenziale di classe, esperienza e misura.

C'è poi da aggiungere come, da sincero ammiratore ma anche ben conscio di cosa di loro considero magico e importante, smisi come tanti altri appassionati della prima ora di comprare i loro dischi e di seguirne la carriera quando nel 1976, con l'ingresso in formazione del bravo, ma freddo e volatile Michael McDonald, entrarono in quella fase "pop" sorniona e paracula che prima fece loro guadagnare un botto di soldi e di notorietà, poi li portò allo scioglimento, nel 1982. Quando nel 1989 si rimisero insieme, con Johnston di nuovo in prima fila e ripristinando il sanguigno e brillante suono originario, ho ripreso entusiasticamente a star loro appresso.

Vertice di quest'opera, a mio gusto, non è per certo la celeberrima, super coverizzata, sempreverde ode funky/rock alla Lunga Corsa del Treno, bensì la traccia numero cinque "Clear As The Driven Snow". La "neve" del titolo sta per cocaina e le liriche contengono l'ennesimo avvertimento contro il suo abuso. Patrick Simmons ne è compositore, autore, voce solista e brillantissimo conduttore sulla chitarra acustica, accordata in maniera non ortodossa abbassando a RE sia il MI basso che il cantino ed arpeggiata coi prediletti ditali di ferro, infilati nei polpastrelli. Dopo due strofe e ritornelli Pat prende la tangente e tra armonici, stoppati, bicordi e legati dipinge un intermezzo strumentale da favola: l'acustica svolazza solitaria per un po', dipingendo figure ritmiche e melodiche di classe sopraffina, per poi ostinarsi in un bordone di RE sul quale prende a barrire la chitarra solista del collega Johnston, sempre più pressante fino a coinvolgere le due batterie per una cavalcata finale a tutto gas, pregna di echi e di risonanze, stop&go e singulti finali di basso. Sono cinque minuti di grandissima musica: originale, ancestrale, visionaria e per niente commerciale, quasi del progressive/country si potrebbe azzardare.                  

Simmons si ripete agli stessi livelli colla sublime ballata country rock "South City Midnight Lady", una dolce celebrazione di un amore occasionale, un numero che per certo gli "specialisti" Eagles avranno senz'altro invidiato, al tempo. L'immancabile e sognante pedal steel guitar, strumento col quale nessuno dei due chitarristi del gruppo sa esprimersi, è nelle sapienti mani dell'ospite Jeff Baxter, allora ancor membro degli Steely Dan. Questa è la sua prima collaborazione con i nostri... li raggiungerà in pianta stabile un paio d'anni e di dischi dopo, per poi andarsene e dedicarsi a tutt'altro, ma veramente! Baxter infatti è attualmente, e da molti anni in qua, pagatissimo consulente del Pentagono per la difesa missilistica degli Stati Uniti, dall'alto della sua riconosciuta abilità di programmatore e progettista in materia di sistemi computerizzati di controllo delle traiettorie balistiche! Incredibile.

Tom Johnston a sua volta non si limita all'exploit  di "Long Train...", affiancandole un altro inno irresistibile e sing-along, come dicono gli americani. Ispirata alla popolosa comunità cinese di San Francisco, metropoli di riferimento per i musicisti del gruppo tutti originari della Bay Area, "China Groove" parte risolutamente hard rock con il celebre riff distorto e carico di eco ribattuto, ma viene subito spruzzata di rock'n'roll dal pianetto saltellante dell'ospite Billy Payne (allora nei Little Feat). La voce nasale ed acuta, inconfondibile, piena di grinta e di soul di Johnston spinge a tutta forza, i cori  poderosi colorano il ritornello e iniettano gioiosità e positività tipicamente fricchettona e californiana, le doppie chitarre in armonia contrappuntano nei punti giusti, quella di Johnston si ritaglia un felice assolo ed ecco altri quattro minuti scarsi di pura gioia di suonare e cantare, puntualmente replicati dai nostri ad ogni concerto e ancor oggi relativamente facili da sentire per radio.

Le altre composizioni di Tom Johnston, al solito il musicista più prolifico oltreché energico della formazione, sono meno epocali: in apertura c'è il mid-tempo "Natural Thing" condito del suono datato e, all'ascolto odierno, sinceramente tenero di un pionieristico sintetizzatore ARP (sempre nelle mani dell'ospite Payne). C'è poi il blues cadenzato di "Dark Eyed Canjun Woman" con l'assolo di chitarra più riuscito del baffuto Tom. C'è ancora la compatta e cadenzata "Ukiah" dedicata alla città omonima, più o meno ad un'ora di strada da San Francisco, immersa in una verde vallata piena di vigneti (siamo nella cosiddetta Wine County californiana... discreti vini, i migliori d'America ma se li fanno pagare come fossero dei Chianti!), evidentemente e per qualche ragione nel cuore del chitarrista.

Johnston riserva poi un ultimo, mezzo capolavoro, messo a ricco e suggestivo finale e a dare il titolo a tutto l'album. "The Captain & Me" (la canzone) inizia in assolvenza sulle code della precedente "Ukiah" ed è subito un festival di armonicissimi arpeggi acustici. I caratteristici cori arrivano puntuali nel ponte per poi deflagrare del tutto, intrisi di gospel, nel ritornello iper glorioso. A questo punto un inaspettato break delle due batterie fa precipitare il pezzo nella sua seconda parte, una faccenda super funk dal ritmo più che frenetico, colle percussioni fuori controllo in jam session, le chitarre scorticate con energia a tutto braccio e la voce di Johnston che fatica a sovrastare il marasma sonoro per poter cantare le ultime frasi.     

Per chiudere, le tre ultime cose: due di esse sono frutto della penna di Pat Simmons e pure diversissime fra loro: "Evil Woman" è un hard rock puntuto e ritmicamente inortodosso, col ritmo di batteria che si mangia le battute e rovescia continuamente gli accenti dell'idiosincratico riffettone di chitarra. Gli amplificatori sono al massimo, le armonie vocali vere e proprie palle di fuoco, quasi indigeribili nei loro rivolti di settima... siamo veramente agli antipodi dalla commestibilità assoluta delle "Long Train Running" e delle "China Groove" e chi ascoltasse queste musiche senza sapere da chi provengono, non avrebbe chance alcuna ad associarle alla immagine comune associata ai Doobies. La seconda e strumentale "Busted Down Around O'Connely Corners" ha il titolo quasi più lungo della rispettiva durata: son quarantotto secondi di duetto acustico in fingerpicking fra i due chitarristi, nulla di trascendentale.

L'unico pezzo a firma collettiva si intitola "Without You" e trattasi di tipica composizione nata da una jam di gruppo: riff di chitarra e batterie all'unisono a pestare l'hard rock'n'roll rotondo ed inevitabilmente melodico del quintetto californiano... pochi accordi resi frammentari dai frequenti stop, atti ad evidenziare ciclicamente il granitico (e non troppo ispirato) riff, con tanto di successive ripartenze. Non manca il breve assolo , stavolta di Simmons e assai telefonato con bicordi di Hendrixiana memoria, fino al gran finale con tamburi e piatti di tutti i tipi in libera uscita, per quello che è da considerare un classico riempitivo, il momento meno interessante di quest'album costellato peraltro di diverse gemme, a mio giudizio più che ottimo genericamente, ma al quale va aggiunta una mia personale, perenne, commossa riconoscenza.

Carico i commenti... con calma