Il Sindacato del Sogno nei suoi pochi anni di carriera ha raccolto molto meno di quello che aveva seminato. "Ghost Stories" nel 1988 chiude la vicenda con un album "classico" e non solo perché a produrlo è stato quell'Elliot Mazer che mise mano ai dischi più crudi e scarni di Neil Young.

Se il rock ha una sua "classicità", intesa come uno stile immortale, allora i Dream Syndicate ne hanno saputo interpretare alla perfezione tutte le migliori suggestioni. Il movimento del Paisley Underground, un ritorno a tutti gli effetti alle radici del vero rock, che sia o meno un'invenzione dei critici, ha comunque scritto qualcosa di indelebile nella storia di questo genere ed ha posto le premesse perché una generazione californiana di gruppi come Long Ryders, Green On Red, Rain Parade, True West non suonassero per (s)vendere la propria anima al mercato ma per metterla a nudo attraverso la musica (e a pensarci bene, sono tutte band che si sono sciolte presto perché niente è più autodistruttivo della povertà). Una volta Steve diceva che forse non è difficile incidere in sala di registrazione una canzone come "The Side I'll Never Show" che apre questo disco, ma è tutt'altra cosa condividerla ogni sera sul palco con un mucchio di gente, confessando che: "...nel mio cuore non brilla nessuna luce ma solo il vuoto e un bagliore sbiadito sulla parte di me che non mostrerò mai".

Allora chi è Steve Wynn? Sicuramente un personaggio affascinante, forse nostalgico e sentimentale nonostante le delusioni della vita che spingono ad essere disincantati o peggio cinici. Vecchi compagni d'avventura (Kendra Smith, Karl Precoda) che vanno via verso altri destini e case discografiche che, negli anni di Reagan dominati dal mito del successo finanziario quale unico parametro della vita sociale, pensano solo a quanti dischi puoi far loro vendere.

Se ascoltiamo una ballata come "Whatever You Please" allora vengono a mente Warren Zevon o il Lou Reed di "Coney Island". Proprio la ballata sembra la forma rock preferita dai Dream Syndicate nel loro ultimo disco in studio, premonitore della piega che prenderà a breve la futura carriera solista di Steve Wynn, quell'acre e lenta canzone elettrica nella quale riversare l'amarezza, il rimpianto o il tormento di un'anima inquieta. Ma non mancano episodi duri in questi solchi, come del resto è nella tradizione del gruppo: "Wheatered and Thorn" possiede le migliori cadenze del rock blues senza ricadere nell'ingombrante fardello della ripetività come pure nella classica "See that my grave is kept clean" del grande bluesman cieco Blind Lemon Jefferson. Le crude chitarre che mordono "Loving The Sinner, Hating the Sin" cancellano il suono a volte patinato del precedente disco dell'inatteso ritorno, quell' "Out Of the Grey"  che magari non venne fuori come loro e noi ci aspettavamo.  La stupenda nudità di "Someplace Better Than This" vede la voce di Steve che gioca con il suono del silenzio eppure inondata da visioni stoniane sospese tra una "Factory Girl", spurgata di ogni sapore country, e una "Lady Jane "senza orpelli di sorta.

E per concludere "When the Curtain Falls", ancora una bellissima ballata stavolta dipinta con i colori screziati della psichedelia. Una limpida cortina di chitarre governate da Paul B. Cutler (che fa sentire la sua provenienza da una band punk dark come i 45 Grave) fa da sottofondo per l'ennesima confessione metropolitana da parte di Steve.

E'un suono diverso da quello di cinque anni prima, dei giorni del vino e delle rose, ha perso quell'onirica frenesia giovanile ed acquisito la maturità e consapevolezza della realtà quotidiana.

Addio al vecchio Sindacato del Sogno. Benvenuto al nuovo Steve Wynn.

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