Ero un ragazzino nel 1987 quando ascoltai per la prima volta Medicine Show, secondo album dei californiani Dream Syndicate pubblicato nel 1984, e rimasi folgorato. Ricordo ancora che mi aveva passato l’LP un compagno di scuola ed io l’avevo prontamente registrato sul lato A di una cassetta da 90 (minuti). Sul lato B c’era The Orphans Parade il primo album in studio dei City Kids, una band garage rock francese. Ma questa è un’altra storia. Avevo già incontrato il Paisley Underground, cioè il movimento musicale neopsichedelico con epicentro in Los Angeles che in qualche modo coniugava la psichedelia, appunto, della west coast con la ruvidezza del punk. L’incontro era avvenuto con i più “tradizionalisti” Green On Red ed il loro ottimo Gas, Food, Lodging, del 1985. Ed era stato un incontro che mi aveva molto colpito, ma anche questa è un’altra storia. Medicine Show invece mi travolse. Le canzoni epiche, la chitarra tagliente e nervosa che esondava da ogni solco di vinile nero, gli echi di Young e Dylan, l’attitudine new wave, mi facevano (ed in buona parte mi fanno) accapponare la pelle e drizzare i peli.

Probabilmente ascoltarlo oggi per la prima volta non fa lo stesso effetto, ma vi assicuro che nella seconda metà degli anni ottanta questo album rappresentava, ed a parere di chi scrive rappresenta ancora, quanto di meglio abbia prodotto non solo il Paisley Underground ma in senso generale il Rock americano. Prodotto da Sandy Pearlman (già con i Blue Oyster Cult ed i Clash di Give’em Enough Rope), Medicine show coniuga Velvet Underground e Neil Young e, come aveva già fatto in maniera più grezza il precedente The Days of Wine and Roses, rilegge le radici country e blues della tradizione americana attraverso la lente della new wave e del punk.

Non è un caso che quest’album sia nato con la migliore formazione (secondo il sottoscritto) dei Dream Syndicate: Dennis Duck (batteria), Dave Provost (già basso dei Droogs), Tommy Zvoncheck (in realtà un turnista che aggiunse le tracce di pianoforte a registrazioni già concluse), Karl Precoda (chitarra solista), quest’ultimo dotato di grande creatività e capace di guizzi chitarristici fulminanti. Ma Medicine show è inevitabilmente dominato da Steve Wynn, che assurge qui ad una statura di compositore/interprete tale da rivaleggiare con i più grandi storyteller della musica americana. Da questa felice unione nacquero acidissime country ballads, divagazioni punk, nevrotici fraseggi jazz, ma soprattutto musica dotata di grande pathos e tensione, lancinante sound chitarristico ed oscura dolcezza.

“Still Holding on to You”, “Burn”, “Bullet with My Name on It”, “Merrittville”, “John Coltrane Stereo Blues” e la stupenda “Medicine Show” sono canzoni dotate di forza ed anima, perfetta sintesi, non solo dell’underground anni Ottanta, ma di quarant’anni di Rock’n Roll. Immaginate i silenzi di Coney island Baby, le chitarre di Zuma e la rabbia romantica di Born to run ed avrete pressappoco idea di ciò di cui stiamo parlando. “Burn”, “Bullett with My Name on It”, la title track e “Merritville” sono ballate elettriche desertiche scandite dalle rasoiate della chitarra di Precoda. Menzione speciale anche per “John Coltrane Stereo Blues”, lunga cavalcata psycho-jazz-new wave che i nostri usano per chiudere i loro concerti, per certi versi vicina ad alcune cose dei primi Talking Heads. A tanta grazia artistica corrispose, manco a dirlo, un immeritato fiasco commerciale Ciò tuttavia non toglie un grammo al valore di questo album noir, tagliente e vellutato. Il capolavoro dei Dream Syndicate. Una pietra miliare del Rock. Uno di quei dischi in grado di definire un genere e indicare la direzione per lo sviluppo futuro. Medicine show è la prova che nei sotterranei le orecchie e soprattutto i cuori sono (quasi sempre) più puri e sensibili che ai piani alti. Welcome to the medicine show.

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