Rino Tommasi nelle sue telecronache era solito suggellare un bel punto di una partita di tennis con il termine “circoletto rosso”; ieri è stata proprio un’inaspettata giornata da "circoletto rosso" e pertanto lancio il lazo e tento di legarla ad un disco. Magari me la rileggerò uno di quei giorni, storti e sbilenchi, che di certo non mancheranno nel prossimo futuro.

E dire che quel sabato era iniziato con una sorta di sirena navale alle 6.00 di mattina che mi aveva fatto rotolare giù dal letto alla ricerca della prima scialuppa disponibile. Gli insulti dei vicini bestemmianti mi avevano ben presto indirizzato sulla provenienza, non onirica, della sirena: la stronza dirimpettaia. Talvolta penso che il vero motivo per cui si ostini ad adornare le sue tozze zampe da pianoforte con dei tacchi, vertiginosi quanto patetici, sia solo quello di torturare il malcapitato che le abita sotto; la stronza, che in assemblea condominiale sarebbe capace di riempire di asterischi la bocca di un santo. Lei, deve aver cambiato sveglia e chissà con quale cura, gioia e compiacimento lo deve avere fatto. Me la immagino avvicinare la mano al mento, triplo, per tentare di tenere a freno e controllare l’emozione: una sorta di clou del mese quando, dopo estenuante elucubrazione per la scelta tra il rutto di un grizzly e la flautolenza di un rinoceronte, deve aver optato per la fottuta sirena.

Ma, come dicevo, è stata una giornata molto positiva ed è con il sorriso sulle labbra che ho girato le casse del mio stereo in direzione della sua abitazione: il sempre verde “Reign in Blood” pronto per ribattere, allo stesso volume, le melodie di Eros Ramozzotti la prossima volta che farà inutilmente ginnastica.

Il sole era già sorto. La temperatura mite, l’assenza di vento, la luce invogliante del sole unite alle pile che mi sono trovato tra le scapole, mi hanno spinto a prendere le scarpette per un rigenerante e lungo allenamento in quota. Poi forchettate piene di risa cui è seguito un aperitivo in città. Cazzate, un bicchiere di troppo, forse tre, a suggellare un incontro con il sesso femminile che chissà. Avevo una mezza intenzione di chiudere con un libro/cinema in compagnia ma quel sole, così duro a morire nel mese di giugno, era così invogliante. Mi sono ritrovato a fare una passeggiata seguendo un facile sentiero che porta alla cima sopra casa: come uno stronzo, ero solito percorrerlo al massimo delle mie potenzialità guardando il cronometro. Ho aspettato il tramonto con una birra in mano, la macchina fotografica nell’altra e mi sono goduto per un’ora la luce cangiante. Sparute gocce di sudore asciugate dal tiepido vento estivo che frustava le fronde degli alberi con soffice rumore che, causa mp3, potevo solo immaginare nella mia mente. La neve sulle catene più alte rifletteva gli ultimi raggi del sole: cielo terso per diversi click. Giornate così nascono per caso, inaspettate bisogna solo prenderle e farle durare più a lungo possibile.

Andare a quel concerto era stato un azzardo perché, fondamentalmente, sono un bipede curioso. Avevo pensato che se ero sopravvissuto, non senza fatica, al live degli Swans (a me totalmente ignoti) non avrei avuto problemi con gli altrettanto sconosciuti The Dream Syndicate. Caio me ne aveva parlato con entusiasmo coinvolgente ed ora lo devo ringraziare perché la performance di oltre due ore me la ricorderò a lungo; lo dimostra la facilità con la quale mi sono rimaste impresse le sconosciute melodie abrasive, (molto rumorosa la chitarristica esibizione dal vivo) del gruppo statunitense. E’ stato assai semplice ritrovarmi nella versione studio delle stesse, decisamente più pulita e patinata: un po’ come quando, dopo un’astinenza prolungata, cerchi di avere la meglio su un reggiseno utilizzando una mano. Le dita, nonostante il tempo, non fanno poi troppa fatica; credo siano guidate dal bel ricordo. Per quasi due ore solitarie, lassù, sono rimasto fino al primo timido buio della sera in compagnia di “Medicine Show”.

Melodie quasi psichedeliche si attorcigliano sulla voce del leader Steve Wynn e sui giri di chitarra di sicura presa e tecnica: è un suono sporco, quello della sei corde di Precorda, cui fa da contrappeso un pesante utilizzo del piano. Sono sufficienti dieci secondi per farmi innamorare nell’ opener “Still Holding on to You”; simile struttura anche per “Bullets Got my Name“, un mid tempo che sfuma dolcemente in testa come un‘eco incastrato tra le alte pareti di una montagna. La produzione del suono mi è parsa particolarmente curata, capace di mettere in risalto tutti gli strumenti ed una menzione la merita la sezione ritmica (cfr.“Daddy’s Girls“ e “Armed wiht an Empty Guns”). Il duo Duck/Provost prende possesso degli arti di chi ascolta manco fossero attaccati a degli invisibili fili. Assai orecchiabile il giro di chitarra di “The Medicine Show” sul quale si appoggiano melodie ipnotiche simili ai lenti momenti delle spire di un serpente, mentre “Burn” è il pezzo che apre le mie giornate da due settimane mentre affronto i tornanti per scendere in città: chitarre, piano e linee vocali si fondono per una ballata semplice e dall’impatto rigenerante.

Odio le recensioni lunghe e soprattutto quelle citano tutti i pezzi; appare evidente che ho fatto un lavoro di merda ma raramente mi era capitato di apprezzare un disco dall’inizio alla fine, testi compresi. Sono solo otto tracce, è vero, ma mi sembrano tutte di un livello molto alto che non si abbassa sensibilmente nemmeno con ascolti ripetuti. Unico appunto è la posizione di “John Coltrane Stereo Blues”: con tutto il rispetto per “Meritville” io avrei chiuso il disco con quel sei al superenalotto che non provo nemmeno a descrivere e che vi invito ad (ri)ascoltare leggendo queste righe video “I got some John Coltrane on the stereo baby/Make it feel all right/I got some fine wine in the freezer mama/I know what you like” […]

Con i prossimi risparmi è mia ferma intenzione comprare il cd d’esordio di questi “The Dream Syndicate” ed il live dell’88 che, forse, con suoni più sporchi rispetto allo studio potrebbe riuscire nell’impresa di piacermi perfino di più di questo raduno di cinque obese stelle.

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