Sono uno di quelli che ha seguito il cammino prog al contrario, partendo dal progressive metal e andando di lì al prog-rock derivativo, poi al neoprogressive anni ’80 e infine al prog classico anni ’70. E i Flower Kings sono state una delle band che mi ha fatto amare il genere nella sua forma più classica, ricordo ancora quando sul mio pc giravano i loro “mattoni” spesso pomposi ed interminabili. Poi la scoperta dei gruppi storici, in particolare gli Yes con cui gli svedesi sembrano più imparentati, ha fatto scemare il mio interesse verso di loro. Gli scorsi due album non li avevo ascoltati moltissimo ma ora un pochino di interesse si è riacceso e l’ultima uscita è girata sul mio lettore per parecchio tempo tra la fine dello scorso anno e l’inizio del nuovo.
Il prog è un genere pomposo ed ambizioso e questo lo sappiamo tutti, è un genere che ama gli eccessi e le cose in grande… ma anche la pomposità e l’eccesso talvolta richiedono un limite; i Flower Kings questo limite l’hanno superato quasi sempre, pubblicando album ricchi di sinfonie sfarzose e spesso eccessivamente lunghe, i loro album sono dei polpettoni energetici di 70 minuti e se va male sono addirittura dei doppi album con oltre due ore di durata sempre e comunque caratterizzati da musica palesemente derivativa e troppo debitrice di un suono di marca anni ’70 (Yes in primis), il tutto dilatato fino allo scoppio, all’implosione su se stesso. Una politica che probabilmente ha tenuto lontani dalla band diversi cultori prog che invece vorrebbero sentire gruppi più freschi o più misurati.
Gli ultimi lavori però rappresentano un tentativo di alleggerire la propria proposta, come se avessero perso diversi punti della patente e volessero recuperarli, già il precedente “Desolation Rose” era ben distante da quella pesantezza che caratterizzava il passato della band. “Waiting for Miracles”, tredicesimo album in studio della band svedese, scorre anch’esso benissimo e lo fa nonostante i suoi 84 minuti di durata. È la quinta volta che i Flower Kings giocano la carta del doppio album ma stavolta questa scelta non si traduce in un mattone che rimane sullo stomaco. Alquanto curiosa la scelta di dividere l’album in due dischi non omogenei, il secondo cd raggruppa soltanto gli ultimi 21 minuti di musica; una soluzione intrigante, è come se il secondo disco rappresentasse semplicemente la “coda” dell’album, una scelta anche un tantino furba che effettivamente dà l’illusione di un album meno pesante, c’è una bella differenza fra il concludere un disco e dire “ora ci aspetta un altro disco di 45 minuti” e il dire “ora ci aspettano gli ultimi 21 minuti”… anche se questo può andare a sfavore proprio di quei 21 minuti, isolarli così in un supporto a parte può farli sembrare degli “scarti”, dei lisci di briscola, il secondo cd sembra quasi una sorta di EP in omaggio per chi non si accontentasse del primo disco, lo paragonerei a quanto accadde con “The Incident” dei Porcupine Tree, con quattro tracce messe in un cd a parte nonostante potessero stare in un unico cd e che arrivavano dopo una lunghissima suite che le sovrastava pesantemente, quasi a volerle sminuire.
Gli aspetti che rendono l’ascolto scorrevole sono comunque molteplici, a partire dalla voglia di non esagerare nelle durate dei brani, la traccia più lunga raggiunge appena i 10 minuti, la “longest track” più breve nella discografia del gruppo, e i brani che superano i 7 minuti sono solo 4 su 15, il 27% del totale, la seconda concentrazione più bassa di brani lunghi nella discografia del gruppo, di meno solo “Desolation Rose”. Ma tralasciando le durate notiamo che la band cerca di evitare passaggi strumentali troppo marcati, ostici e ridondanti levigando e ammorbidendo il lavoro di ogni strumento e rendendo in un certo senso protagonista la melodia. Si cerca inoltre di non rimanere vittime del proprio classicismo sfrenato, evitando di enfatizzare troppo su vecchi organi e mellotron e puntando molto sul lavoro di sintetizzatori, spesso soavi e accarezzanti, modernizzati ma comunque con una melodia vintage, spesso però anche spigolosi con suoni in prestito da certa elettronica più scura, di frequente troviamo schizzi elettronici ipnotici e psichedelici, un caleidoscopio di suoni, soluzioni ed effetti abbastanza vario che non annoia come potrebbero fare altri lavori del gruppo; anche se schiodare i Flower Kings da un certo legame classico rimane comunque impossibile.
Potremmo in un certo senso definirlo un disco “delicato” che comunque abbonda di momenti accattivanti. La melodie più leggere e cullanti si respirano particolarmente in brani come “Vertigo”, “The Bridge”, “Sleep With the Enemy” e “The Crowning of Greed”. Qualche volta si prova a diventare più pomposi, come succede ad esempio con la frenetica incursione nella musica classica di “Ascending to the Stars” o con l’accattivante strumentale “The Rebel Circus”, per toccare poi il picco nel malatissimo jazz elettronico e allucinogeno di “Spirals”; ma anche in questi brani la band non dà l’idea dell’eccesso, anche nelle loro note si avverte un senso di scorrevolezza, in ogni caso rimangono dei semplici episodi all’interno di un album nel complesso piuttosto morigerato, sono brani che servono ad alzare giusto un po’ la cresta in alcuni momenti ma è un’esplosione ormonale che termina lì. Al contrario c’è pure spazio per un episodio di pop-rock vivace ed elegante che risponde al nome di “Wicked Old Symphony”, fra i brani brevissimi invece menzione sulla conclusiva “Busking at Brobank”, una marcetta acustica di 52 secondi fischiata dal suono di un theremin che mette a nudo l’attitudine sperimentale del gruppo. In ogni caso il brano più dichiaratamente incentrato sul prog classico è senz’altro “Miracles for America”.
Forse l’album più concreto e maturo della band svedese, che sembra aver capito cosa vuole davvero e trovato la quadratura del cerchio, davvero non mi sarei aspettato una rotazione così alta. Ora sembra che ce ne sia subito uno nuovo in lavorazione e direi che l’interesse ora è sicuramente più vivo.
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