Sono di ritorno dalla mia consueta camminata in solitaria, tra sentieri silenziosi, tanta neve ed una inaspettata quanto mistica nebbia che d'improvviso ha sbarrato il mio cammino. Meglio non rischiare quando la visibilità diventa pessima, nonostante conosca a memoria il percorso che da casa sale fino alla montagna che domina Domodossola e tutta la sua piana; ed allora non proseguo. Non troppo soddisfatto per i pochi chilometri fatti, in tutto sedici, ridiscendo verso la mia borgata; a poche centinaia di metri da casa arriva anche la pioggia, così dal nulla, senza preavviso: una violenta e gelida sferzata. Non mi fermo nemmeno a tirare fuori dallo zaino un qualcosa per ripararmi; voglio bagnarmi, ho bisogno di purificare corpo ed animo soprattutto.

Sono a casa sotto la doccia...violenta...purificare...una luce, una scossa improvvisa e mi appaiono loro...come in un sogno, ad occhi ben spalancati.

Quante volte ho lodato, ho osannato i God Machine sul sito. Decine e decine di volte, trovando conforto nell'appoggio incondizionato di tanti di voi, in particolare del ragazzo di Lecco, il buon tia.

Esco dal bagno ed in un attimo cerco sul computer Home che la band fece uscire poco dopo la pubblicazione di quel magistrale monumento uditivo che è stato il primo album: "Scenes From The Second Storey". Ribadisco e confermo: il disco in assoluto più importante di tutti gli anni novanta (sempre escludendo i Primus).

Venti minuti soltanto...ma oggi mi bastano eccome.

Difficile spiegare cosa provo, quanto godo di fronte alla Musica dei tre ragazzi di San Diego.

Difficile trovare nuovi termini per descrivere l'imponenza maestosa delle loro canzoni. Ho già scritto altre recensioni, sicuramente molto più dettagliate.

Unici ed irripetibili: sono banale, lo dico io stesso, nel digitare questi due termini. Ma è esattamente così.

Non esiste un termine di paragone perchè nessuno ha mai suonato, e suonerà in futuro, con la stessa drammatica tensione emotiva.

Un suono efficace, distorto, "adulto" nonostante la giovanissima età di Robin, Jimmy e Ronald.

Come avviene nella title track, unico pezzo scritto dalla band.

Minacciose note imbastite dagli strumenti; una voce che è una litania sermonica. Abrasivi e lancinanti sul finale, dove la tensione narrativa sale a dismisura, prossima alla saturazione uditiva...

Proseguono facendo a pezzi, smontando a loro piacimento i Bauhaus di "Double Dare". Note oscure, ripetute all'infinito. Un senso di smarrimento, ansia dilagante nell'ascolto...Ma è eterno il mio piacere di fronte allo sfrontato attacco.

Ci sono altre due cover dove tutto diventa più chiaro, nitido, bucolico, puro...come la neve che ho incontrato in mattinata.

...ecco sono arrivato alla chiusura del cerchio narrativo...ALL MY COLOURS...

Ad Maiora.

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