Bastava uno sguardo per capire che Jeffrey Lee Pierce non sarebbe morto di vecchiaia. Spirito dissoluto ed cupamente poetico, dominato dalla dipendenza da alcol e droghe, con un volto da Marlon Brando di periferia, Jeffrey Lee in “For the Love of Ivy” canta “Sembri un Elvis venuto dall’inferno”, ma forse parla di se stesso. Un Elvis gonfio d’alcol e strafatto, un Jim Morrison riesumato da Père-Lachaise durante un rito voodoo, che ha scandagliato il caos della propria anima fino a diventare vittima di se stesso, raccontando il disagio e l’alienazione, facendo a pezzi il sogno americano, distruggendo tutto quello che aveva creato, rendendosi così rappresentazione in carne e sangue del verso di Oscar Wilde “ogni uomo uccide ciò ch’egli ama”.

Jeffrey Lee Pierce, nato a El Paso ma cresciuto a Los Angeles, con i suoi Gun Club ha scritto una delle vicende più importanti e sottovalutate del nuovo rock e del blues moderno. Ha contaminato le radici della musica americana con il punk. Ha oltraggiato il blues ed il country. Ha smembrato la tradizione per ricomporla attraverso un lessico tetro e malinconico che racconta storie meravigliosamente dark di omicidi, di sesso e romanticismo, di alcol e droga, di solitudini vastissime. “Sono sceso giù al fiume della tristezza, sono sceso lungo il fiume del dolore e ho sentito chiamarmi per nome” (“Mother of Earth”). Jeffrey Lee Pierce evoca personaggi brutali e nichilisti che sembrano usciti dalle pagine di Meridiano di Sangue di Cormac McCarthy e mescola tutto, musica, testi e suggestioni, in una miscela incendiaria e stordente che avvicina il Gun Club più al Birthday Party che a band americane coeve.

Jeffrey Lee, ventenne, nel 1979 scrive per la fanzine Slash occupandosi di rockabilly anni ’50 e blues prebellico, si appassiona alla musica reggae e, fanatico di Debby Harry - della quale imita il taglio ed il colore biondo platino dei capelli - fonda il fan club dei Blondie. Ad un concerto dei Pere Ubu conosce Brian Tristan, il futuro Kid Congo Powers, con il quale decide di mettere su una band. Il Kid dovrebbe essere il chitarrista solista, ma neanche possiede una chitarra e Jeffrey Lee risolve il problema prestandogli la sua e tenendo per sé il ruolo di cantante. Inizialmente si battezzano Cyclones, ma dopo poco cambiano nome in Creeping Ritual. Trascorrono due anni suonando spesso con gruppi della scena punk losangelina, cambiando più volte la sezione ritmica, finché con l’entrata nella band del bassista Rob Ritter e del batterista Terry Graham, la formazione si assesta ed il nome cambia definitivamente in quello che conosciamo (la leggenda narra che il nome Gun Club sia stato coniato dal cantante dei Black Flag, Keith Morris). Ma i Cramps, in trasferta a Los Angeles, iniziano a frequentare il giro del Gun Club e all’indomani dell’improvviso abbandono del loro chitarrista Bryan Gregory, Lux Interior e Poison Ivy offrono il posto vacante a Brian Tristan, il quale accetta con la benedizione di Jeffrey ed esce momentaneamente di scena diventando Kid Congo Powers. E poiché nel Rock’n’Roll, come nella vita, vale il detto “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”, non è un caso se il Kid, successivamente, entrerà a far parte anche dei Bad Seeds di Nick Cave, alternandosi per qualche anno tra il Gun Club ed il Re inkiostro.

Il Circolo della Pistola, rimpiazzato il Kid con Ward Dotson, Incide in soli due giorni e con un budget da fame Fire Of Love (1981) a cui seguirà Miami (1982), album epocali che marchiano a fuoco gli anni ’80 con la loro primordiale mistura di selvaggio country-blues e devastante punk’n’roll, chitarre sferraglianti e deliri erotici, rantoli e ululati, sostanze stupefacenti ed oscuri riti esoterici. Il Gun Club, esplora i recessi più torbidi e truci di quella American Music con cui i Blasters, qualche mese prima, avevano aperto di fatto la stagione del roots-rock.

Per quello che può valere, io propendo per Miami, forse perché è il primo disco dei Gun Club in cui mi sono imbattuto e, come è noto, il primo amore non si dimentica.

“Aveva un ego smisurato e un comportamento spesso stupido. Era capriccioso e bugiardo. Sapeva essere affascinante come insopportabile. Sognavo di ucciderlo”. (Ward Dotson su JLP)

Nel 1983 il Circolo pubblica l’EP Death Party e, nel 1984, l’album The Las Vegas Story che vede il ritorno del figliuol prodigo Kid Congo Powers e l’avvicendarsi al basso della conturbante Patricia Morrison (che passerà ai Sisters Of Mercy e poi nei Damned, sposa del cantante Dave Vanian). Il tour promozionale in Gran Bretagna finisce in un completo disastro. Nel Club c'è troppa droga, troppo alcol e troppe liti. Così, concluso il tour (anzi, Terry Graham se ne va prima), il gruppo si scioglie. Jeffrey Lee decide di rimanere a Londra con la sua nuova ragazza, la giapponese Romi Mori, e nel 1985, incide due dischi solisti, l’album Wildweed e l’EP Flamingo. Trascorre i due anni successivi seguendo programmi di disintossicazione riuscendo a vincere, almeno momentaneamente, la dipendenza dall’eroina. Così, nel 1987, Jeffrey Lee è pronto a riaprire il Club a cui si iscrivono Romi, il fido Powers (nel frattempo divenuto parte integrante anche dei Bad Seeds) ed il batterista inglese Nick Sanderson, ex Clock DVA (che successivamente militerà nei Jesus And Mary Chain).

Nel dicembre di quello stesso anno il rinnovato Gun Club pubblica Mother Juno, prodotto da Robin Guthrie dei Cocteau Twins e registrato nei leggendari Hansa Studios di Berlino, in cui David Bowie aveva inciso la trilogia berlinese ed utilizzato, in quel periodo, anche da Nick Cave e dagli Einsturzende Neubauten. Una parte della critica musicale stronca l’album, ritenendo che la produzione di Robin Guthrie, musicalmente lontano dalle atmosfere dai primi lavori del Club, abbia ripulito troppo il suono e che la scelta del produttore dimostri la “confusione creativa” di Pierce. “Appesantito da suoni gravi ed uggiose cantilene, Mother Juno segna il definitivo declino dei Gun Club” (così Alberto Campo sulle pagine di Rockerilla n. 88, dicembre 1987).

Voglio chiarire subito che non è così. Mother Juno è un grande album. Robin Guthrie crea un suono più originale ed elaborato ma la musica del Club ruggisce come e più del solito.

In un'intervista del 1990 Jeffrey Lee afferma: “Abbiamo cercato di colorare la nostra musica il più possibile. Non cerchiamo di copiare i nostri dischi precedenti con il pretesto che hanno venduto bene o che la reazione dei media è stata positiva. Non voglio vivere del mio passato, lo spirito del Gun Club non deve rimanere fisso su Fire Of Love o su Miami, tutto questo risale a quasi 10 anni fa".

Questa scelta ha destato irritazione negli amanti del punk-blues degli esordi, ma chi si accosta a questo disco senza pregiudizi scoprirà magnifiche canzoni dall'intenso lirismo come solo il Gun Club le potrebbe produrre. E se negli arrangiamenti emerge talvolta il clima europeo e berlinese, nei contenuti questa è opera intrinsecamente americana, che offre una reinterpretazione moderna del blues senza temere confronti con le precedenti prove della band, grazie alla superba qualità dei brani (altro che confusione creativa!) e ad un Jeffrey Lee Pierce in stato di grazia che declama i suoi sermoni disperati con totale abbandono, con voce ora trascinante ed epica, ora suadente e sinistra, denudando la sua anima palpitante e idiosincratica.

Pur esplorando nuove possibilità sonore, infatti, Jeffrey Lee non ci conduce nel paese dei balocchi e lo si comprende sin dalla bella copertina di Claus Castenskiold, che è la rappresentazione di ciò che attende l’ascoltatore tra i solchi di questo disco e cioè un viaggio suicida verso il nulla, attraverso il deserto. Il deserto morale della Bad America, l’America matrigna, amara e maledetta, cantata da Pierce.

Il Club offre ai tesserati, ancora una volta, un grande album di Rock’n’Roll, impregnato di atmosfere misteriose, riff taglienti, chitarre slide e feedback, testi tetri ed inquietanti che parlano di crudeltà, tradimento, abbandono, amore e morte, disperazione, di sconfitta senza possibilità di riscatto. Un album abrasivo, scuro, spettrale, psicotico, con i nervi a fior di pelle, tra un Nick Cave senza pace ed i Cramps più gotici.

Nove brani - più due bonus nella versione CD - e non c’è nulla da buttare via. Aprono l’album “Bill Bailey”, brano ragtime composto da Hughie Cannon nei primi del novecento, violentato e distorto in uno psychobilly travolgente come nella migliore tradizione del Club e dedicato all’amico Nick Cave, seguito dall’aggressione sonora di “Thunderhead”, sfrenata e brutale. Due dei pezzi più crudi dai tempi di Fire of Love. “Lupita Screams” è il primo capolavoro di questo disco, Garage nervoso e tagliente ma allo stesso tempo epico ed emozionante, in cui Jeffrey dimostra di essere diventato un ottimo chitarrista. “Yellow Eyes” (impreziosita dagli intarsi rumoristi dell’ospite Blixa Bargeld) e “The Breaking Hands” sono splendide ballate. Carnale e Funky-Blues la prima, letargica e shoegaze la seconda, che porta chiaramente il marchio di fabbrica del produttore scozzese Robin Guthrie, il quale avvolge questa canzone - unica nella discografia dei Gun Club - in una nube di chitarre slide e sintetizzatori. "Araby" è surf-punk a rotta di collo. “Hearts”, un inno che brucia nel fuoco del feedback di Powers e dell'estensione vocale di Pierce. Segue il punk pulsante di "My Cousin Kim" e lo sfolgorante epilogo dell’intensa "Port of Souls".

Mother Juno è un disco audace e potente, sinuoso e velenoso come un crotalo in agguato tra le rocce del deserto infestato dai demoni di Jeffrey Lee che ci conduce ad un appuntamento con il diavolo, al crocevia dove lui e Robert Johnson hanno venduto le loro anime.

Seguiranno Pastoral Hide And Seek (1990) e il superfluo Divinity (1991) nonchè il secondo album solista di Pierce, Ramblin’ Jeffrey Lee & Cypress Grove with Willie Love (1992), gesto d’amore nei confronti del Blues.

Nel 1993 si compie l’ultimo atto del Gun Club con Kid Congo che esce definitivamente dal gruppo e Jeffrey Lee che pubblica Lucky Jim. Ma ormai il Club ha chiuso i battenti per carenza di iscritti. Se ne va anche Romi con Nick Sanderson e Jeffrey Lee perde in un sol colpo la sezione ritmica, l’amore e la voglia di vivere, già diluita dall’alcol e dalla droga.

Sulla via dell’autodistruzione Pierce torna a Los Angeles, ma la salute peggiora inesorabilmente. È sieropositivo ed ha il fegato distrutto dall’epatite e mentre si trova in visita da suo padre a Salt Like City, nello Utah, viene colto da una fatale emorragia cerebrale. È il 31 marzo 1996. Jeffrey Lee aveva 37 anni.

I Gun Club lasciano ai posteri un'eredità di dimensioni enormi ed il merito di avere coniugato, per primi, punk e blues, teatralità glam e severità folk. Nessuno, prima e dopo, suonerà come loro ed avrà lo stile canoro di Jeffrey Lee Pierce, uno degli artisti rock più creativi e sottovalutati degli ultimi quarant’anni.

“Non c’è niente di irreale come la vita” (Jeffrey Lee Pierce).

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