“Se uno di noi finisse il live con i vestiti asciutti, allora non sarebbe più un membro della band!”

Parole vere quelle di Pelle Almqvist, frontman dei The Hives, parole vere.

Ma torniamo un po’ più indietro, precisamente nel tardo pomeriggio di martedì 4 dicembre, quando faccio il mio arrivo a Milano: non c'ero mai stato. Un freddo della Madonna.

Mi ospita un vecchio amico della mia città il quale ora ci studia, un futuro ingegnere aerospaziale, uno fissato con Star Wars, robotica e avete capito. Un duro.

Decidiamo di andare a bere qualche birra prima di approdare all’Alcatraz, un po’ per attutire il freddo, un po’ perché ero convinto che andando brillo al concerto dei The Hives mi sarei divertito il doppio.

Premetto che mi sono sempre piaciuti, ma mai li ho lontanamente considerati un band di valore o di rilevanza, solo cinque pazzi che sudano manco fossero fontane danzanti, il che all’apparenza mi ha sempre garbato molto. Ci mettono del loro, “si divertono=fanno divertire”, ho sempre pensato io.

E stavolta c’ho azzeccato.

Saluto il mio compare di Milano che in mia assenza, dice, andrà a spaccarsi di kebab.

Entro all’Alcatraz, fino a ieri sera sconosciuto: bello, pensai che fosse l’ideale, oltre al fatto che somiglia molto al mio più vicino New Age di Roncade, anche se quest’ultimo è parecchio più piccolo. Entro che sono un po’ brillo, sciolto e pacifico; l’età media della gente si aggirava sui 25-30 anni, ciò fa di me un minuscolo dato irrilevante nella percentuale di presenza di acerbi ventenni nella statistica finale del pubblico: bassissima, se non insignificante. Ma vabbè.

Ad aprire la band di Fagersta, Svezia, ci sono gli americani The Bronx: un po’ di rabbioso punk hardcore sostenuto da una gran voce, anche se il pubblico, pur gradendo, non si è smosso più di tanto. La mia leggera euforia data dall’ebrezza va un po’ scemando, ma sono tuttavia curioso di sapere come vivrò questo concerto (soprattutto di sapere SE vivrò, visto che spavaldo io mi avventurai nel bel mezzo della calca nei pressi del palco, io, che peso meno di una piuma di Paperino.)

“I nordici sono sempre in orario” dissi tra me e me “Suoneranno poco più di un’oretta e poi andranno ad ubriacarsi”. Profetico io.

Fratelli Almqvist & Co. salirono sul palco precisi alle nove e mezza, e alle undici scarse erano già grondanti (a dire il vero lo erano già dopo i primi cinque minuti), attaccati a una rigorosa bottiglia di birra con una mano, mentre con con l’altra ci salutavano calorosi.

Eppure non andò così di fretta.

Quando fecero l’ingresso in scena fu il tumulto, il caos, i pazzi scatenati presero il sopravvento e cominciarono a saltare noncuranti dei miei piedi, ma…”un momento.. salto anch’io. Non so come, ma sto saltando come un matto!"

L’apertura è semplicissima, quasi infima: Come on, una canzone d’apertura che dura un minuto e si ripete in “Come on come on”. Banale, ma efficacissimo.

Il pezzo che segue è 1000 Answers, canzone che conosco a memoria causa le infinite volte in cui ho giocato a Fifa 12. La platea va su e giù, io vado su e giù, mi aggrappo a immensi omaccioni sudati per non soccombere, salto a mia volta come un fan sfegatato nel disperato tentativo di ostracizzare i violenti, volenti o nolenti. Ciò nonostante, mi diverto un fracco.

“Milan is called Milan cause it’s My-Land! Io sono il vostro Re!”

Parecchio vanaglorioso Pelle, ma piaccia o non piaccia il suo sorriso è contagioso e il suo essere “attivo” a livello di performance (dovuto ovviamente alla natura rock e goliardica del gruppo) attrae ed entusiasma, per non parlare di “Beady Eye” Nicklas Almqvist, il fratello chitarrista, con quei suoi sguardi da simpatico pervertito e le sue mosse da figaccione. Tutti in abito da smoking e tuba, rigorosamente da sempre.

Il concerto va che è una meraviglia, a metà inizio ad avvertire stanchezza nelle gambe, ma mi sono battuto e sono riuscito a non sopperire agli spintoni e sgomitate della ressa; ho fatto mio un piccolo spazio vitale in cui poter gestire come voglio queste teste calde che scalpitano e sobbalzano.

Suonano un’oretta e venti, per poi concedersi cinque minuti di pausa e riprendere con tre canzoni finali, tra cui, l’ultima, la celeberrima Tick Tick Boom che tutti un po’ conoscono e un po’ se la sono fatta entrare in testa per almeno cinque secondi nella vita. Io anche di più, e non mi vergogno a dirlo.

Questo è il lato bello degli Hives, le canzoni più celebri, anche se si contano sulle dita di due mani (senza forse impiegare tutte le dita), sono, posso dirlo, una figata pazzesca. E live poi, dove addirittura la sala esondava dal sudore dei musicisti, rendono ancora di più.

Sono pronto a scommettere che chiunque non li conosca, se andasse a vederli si godrebbe la serata. Pure io che non conosco tutte le loro canzoni (quelle che mi ricordo si conteranno sulle dita di due mani e anche qui probabilmente non servirebbero tutte le dita) mi sono divertito ed entusiasmato con loro. Credo che questo sia il vero significato del rock, o quantomeno uno dei tanti.

E poi finalmente una band che stuzzica il pubblico (“Shut up now! Shut up! Shut up motherfuckers!”/”You can say fuck off but we are on the stage now and you’re paying us!) ma lo abbraccia,  e non il solito cantante ruffiano (“Siete un pubblico fantastico”)che poi manco ti caga a momenti. Loro hanno il loro stile e questo per me già rende loro onore.

Il fratello chitarrista dagli occhi perennemente sgranati ha pure fatto stage diving alla fine, io l’ho sostenuto inizialmente (mi sono beccato tutto il suo sudore) e ho pensato per un momento di rubargli una scarpa: erano di classe. Poi ho detto, “no, questo è capace che mi ammazza”.

Ma sono simpatici dai, sarà che è la prima volta che vado ad un concerto in cui la band interagisce davvero con il pubblico (ci hanno pure fatto cantare una canzone di compleanno in italiano per un loro amico, se ci leggi auguri Alex!), ma se ci penso i 30 euro spesi sono valsi la pena. Mi sono divertito, e consiglio a tutti se capita di andare a vederli (magari cercando di prendere il biglietto a meno schei).

Finito il tutto sono ritornato al freddo, sudato e incriccato. Vado con il mio amico in un pub molto carino vicino al centro esordendo con un perentorio Siamo qui per mangiare”. Famelico io. La cameriera, una tipa tanto brutta quanto stupida ci dà un tavolino del cazzo. Nel frattempo ci chiede per il bere e ordiniamo due Coche. Ce la porta in bottiglietta di vetro e ci fa pagare cinque euro a testa (5! 5! 5 euro a testa!!). Si dimentica di venire a ordinare. Si dimentica di noi, e siamo appostati di fronte al bancone. Intanto rimaniamo inebetiti di fronte agli esorbitanti prezzi (olive ascolane 5 euro??). Passa un quarto d’ora.

Decidiamo di andare a mangiarci un fottuto kebab. Intanto ripenso al concerto: sembra passato un anno. E il bello è che ne ho già un gran ricordo.

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