Per "Rolling Stone", la 306esima canzone nella classifica delle 500 migliori di sempre.

Per me, uno dei testi più belli, poeticamente profondi, sinceri e commoventi nell'intera storia del Rock e del Pop contemporaneo. Un testo decisamente al di sopra della media, semplicemente stra-ordinario; un testo su cui fermarsi, riflettere, pensare (e a lungo).

Comincerei così ad introdurvi allo splendore unico di una canzone come "That's Entertainment", apparsa quasi in tono minore, semi-nascosta e senza particolari clamori, alla fine della prima facciata di "Sound Affects", quinto album dei Jam datato 1980, e poi pubblicata anche come singolo il 7 febbraio dell'anno successivo (con, sul retro, una rara ma non imprescindibile versione live di "Down In The Tube Station At Midnight"). Una canzone anomala, molto anomala da pubblicare come singolo, senza nessuno o quasi dei segni caratteristici che da un singolo dell'epoca sarebbe lecito attendersi (arrangiamento su base acustica, sonorità scarne, spontaneità esecutiva sono ciò che si ascolta, in barba agli eccessi di produzione che il nuovo decennio avrebbe imposto a regola fissa). Una canzone d'impegno sociale, ma lontana da proclami politici e priva di frasi ad effetto o ideologicamente caratterizzate. Una canzone sostanzialmente triste, dimessa, malinconica, ma capace di nascondere il dramma (vero) che racconta sotto il velo di un pungente, finissimo sarcasmo tipicamente "british". Una canzone di denuncia senza essere canzone di protesta.

Lo ammetto, i Jam mi sono sempre piaciuti, ho straveduto per loro, ho persino in camera la foto di Paul Weller, accanto a quelle (cui tengo altrettanto) di Paul McCartney e George Best: loro sono i miei miti indiscussi, anche se i fanatismi eccessivi non mi sono mai andati a genio. E ho amato (e amo tuttora) i Jam per quel loro essere stati diversi, particolari, unici in un periodo di "pecore", di giovani omologati e sottomessi alle mode del Punk nascente. Il Punk che infuriava fragoroso, distruttivo, inesorabile, e che avrebbe dovuto portarsi via tutto, tutto quanto c'era stato prima. E vedere questi qui, questi tre provinciali del Surrey che si presentavano al Marqueee o in qualcun altro dei templi dei Punkster londinesi in giacca e cravatta, coi vestiti confezionati in sartoria, beh, per me è stato un godere. Loro che gli ambienti Punk li avevano bazzicati eccome, ma più per comodità che per spirito d'appartenenza. Loro che di Clash e Pistols non ne avevano più voluto sapere dal '77, l'anno d'oro delle nuove tendenze, quando fra lo scalpore generale avevano disertato il White Riot Tour.

Loro che avevano classe da vendere, loro genuinamente "snob" perché serviva esserlo, in quei casi, mentre la critica inferocita (e prezzolata dalle case discografiche, in gran parte) gettava fango sui tre e li definiva "di destra", addirittura "neo-fascisti" perché lontani anni luce dalla finta anarchia di facciata dei Pistols, perché retrogradi e anacronistici, perché guardavano a Who e Kinks invece di assecondare le tendenze in atto. Dicevano certi luminari della critica, parafrasando le loro parole: ma dove si presentano mai, 'sti tre, con quelle patetiche e datate acconciature da Mod e quella Union Jack cafona esibita qua e là tanto per fare i fighi? Questi tre antiquati, che al massimo vanno bene per serate-revival anni '60 in cui ad attenderli ci sono schiere di mediocri che ancora si aspettano schitarrate (e salti) alla Pete Townshend, e stravaganze infantili degne del peggior Keith Moon...

Così dicevano, si, e intanto i Nostri, mentre altre formazioni "nuovo-modello" arrivavano si e no al primo album, incidevano perle del livello di "All Mod Cons" e "Setting Sons", e raggiungevano una maturità tale da arrivare a comporre gioielli lirici come "That's Entertainment". Una di quelle canzoni che ti vengono una volta nella vita o forse non ti vengono affatto, perché scrivere grandi canzoni è da pochi; uno di quei capolavori che nascono nella spontanea casualità di una giornata qualunque: raccontano che Paul Weller, a buttar giù quel testo su quegli accordi, ci abbia messo non più di dieci minuti, mentre tornava a casa dopo una giornata triste, senza colore, senza emozioni. Una giornata apatica, quando non si ha voglia di far niente salvo che di mettersi lì, in totale solitudine, a scrivere; e a scrivere creando qualcosa di grande, qualcosa che quando la ascoltai la prima volta (diversi anni fa) rimasi senza parole, e leggendo il testo mi veniva da piangere come non mi era mai successo con Dylan, con Young, con Simon, con tutti i più grandi.

Quello che leggevo era il ritratto di scenari desolati di periferia, di squallidi ambienti fatti di tristezza e depressione, nonché il resoconto della giornata-tipo di un qualsiasi componente della working class inglese, fra sirene e rumore assordante di macchine, treni e autobus che si muovono nell'alienante contesto della classica città industriale d'oltremanica, quella col paesaggio segnato dalle ciminiere e dalle case a schiera fatte di mattoncini. Dentro allucinati quadri di vita domestica, fra bambini che piangono e sigarette divorate nel nervosismo, svegliandosi da sonni agitati al frastuono della Tv senza riuscire neanche a finire una tazza di tè, catapultati all'esterno a respirare l'odore acre di benzina delle 6 del mattino, pensando a Paesi e vacanze lontane. Fra mura spoglie e il grigiore di cieli che fanno un tutt'uno con l'asfalto di strade sconquassate, abitate solo da cani e gatti randagi. Senza neanche rendersi conto di che ora sia, di un tempo che si dilata e si comprime fra i lunedì che non passano mai e la noia di un mercoledì piovoso, senz'anima. Si vive come automi, pietrificati, scarnificati, svuotati dal ritmo innaturale della produzione di serie che non si ferma e mai si fermerà, di una perenne e ossessiva catena di montaggio, di macchine che non smetteranno di muoversi e di risuonare neanche alla fine di un turno, perché poi si ricomincerà il ciclo. 

Frasi ellittiche, sospese, ermetiche si susseguono come in un incubo fra cinque strofe che trasudano disperazione, disperazione autentica. Strofe inframezzate dal caustico, amaramente ironico commento alla situazione descritta: "That's Entertainment", ovvero "questo è spettacolo", questo è LO spettacolo (di vita concreta, e non di varietà) offerto da una città come tante altre, in una giornata come tante altre. Con l'acustica di Weller a reggere il pezzo accompagnata dal ruvidissimo basso di Bruce Foxton e da pochi, incerti, sporadici colpi di rullante di un defilato Rick Buckler; in un contesto sonoro più che mai essenziale, minimale, con breve concessione a qualche spruzzata di una chitarra elettrica che richiama persino i Beatles di "Tomorrow Never Knows". Anche il video promozionale fu girato in uno studio asettico, semibuio, impalpabile, con Weller e Foxton addirittura seduti.

Ma per fortuna arriva la sesta ed ultima strofa a dirci che siamo pur sempre esseri umani con un cuore, e non automi del tutto asserviti a una meccanica sequenziale. Due innamorati che si baciano sullo sfondo stellato di una mezzanotte ci dicono che la solitudine si può vincere, si può ristabilire un contatto, si può tornare a respirare umanità. Si può capire che in noi c'è ancora vita, per quanto calpestata, ignorata e mortificata dai ritmi di una post-modernità innaturale e tirannica. 

Dedicata a tutti quelli che hanno amato e amano i Jam.

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