La sindrome di Stoccolma.

O “della nostalgia del presente”


Il futuro visto dal passato dovrebbe somigliare al presente, non credi?

Perché, invece, accade così spesso che, avendo l’opportunità di gustarsela situati in quel futuro che è il nostro presente, quella visione risulti ingenua come la fantasia di un bimbo troppo sollecitato dal turbine di stimoli che lo avvolge?

La torta svedese


Per una serie di fortuite coincidenze sto facendo un giretto musicale nelle terre di Svezia, tra le policrome lande dei territori del pop.

Ed il quesito, in forme diverse, pare ripresentarsi in ogni caso.

Tre dischi tre, usciti negli ultimi mesi, ognuno generato da una diversa attitudine nel metter mano alle memorabilia dell’immenso trovarobato della musica degli ultimi 40 anni.

Ognuno alle prese con diversi spicchi della gigantesca torta.

Nella zona dell’electro pop affonda la lama dei “The Knife”, ritagliandosi una fetta abbondante, con questo “Silent Shout”.

L’urlo silente


Ed è proprio con la title track che si apre il loro terzo disco. Ma dove caspita siamo?

Quest’arpeggio di synth ha la stessa età dell’improbabile taglio di capelli che devo aver portato in una vita precedente (che prevedeva anche l’inutile orpello d’una chioma)

Siamo dentro il loro terzo disco, ma confesso di essere stato all’oscuro della loro esistenza sino a pochi giorni fa.

Sono un duo. Nelle foto indossano nere maschere ultranasute rubate ad una improbabile commedia dell’arte.

Ma il camuffamento non è sufficiente a celare una delle due identità: riconosciamo la voce di lei, la stessa che abbiamo sentito in “What Else Is There” dei Röyksopp.

Anche se assumerà timbri diversi e mai “naturali” lungo le 11 tracce. Sempre filtrata, a volte rimanda ad una versione pseudo aliena di Kate Bush, in un falsetto “trattato” come per accentuare un assurdo esotismo da cartolina digitale dal sapore orientale di “The Captain” dove una rarefatta ed estesa scia elettronica ne precede l’ingresso.

E qualche volta sarà anche “triplicata”, per circondare, sul dancefloor, quella vagamente epica (e francamente non memorabile) del compare, dentro al groove di “We Share Our Mother's Health” che mi costringe, guarda un po’, ad un accenno di danza. Tutto intorno percussivi rimbalzi sintetici e still drums.

L’andamento è alterno.
Così al dinamismo precedente segue la breve ninna nanna di “Na Na Na” dove la bimba torna a propinarci la sua voce in versione infantile. Forse per prepararci al pasticcio di “Marble House”, sgusciato via da qualche disco della prima metà dei vituperati ’80 (Human League? Aiutatemi, quanti ne ho rimossi..)

Il forsennato tour de force tra i possibili riferimenti in bilico tra il suono tedesco e albioniche memorie synth pop
(che affiorano spesso mescolate nel medesimo brano) e squarci che dovrebbero piacere a chi ha apprezzato l’ultimo dei Royksopp, si interrompe con il titolo seguente, dove la personalità del duo svedese sembra trovare il massimo dell’autonomia.

Mentre ascolto l’essenziale trattamento riservato a “Like A Pen” chiedo venia agli estimatori (sono tra loro) dei geniali Plaid se mi viene da pensare ad una versione cantabile, meno concettuale, come estrapolata per un trattamento alleggerito, dal fenomenale “Not For Threes”.

Sarà per la buona disposizione alla quale mi ha indotto il brano precedente, ma anche nella delicatessen di “From Off To On”, liquida e sussurrata, trovo più motivi per adagiarmi che per rovistare nel data base del già sentito.

Sintomi della sindrome

Nella condizione di ignaro passante, rapito per il breve lasso di tempo dell’ascolto, ho l’impressione di ravvisare alcuni sintomi della sindrome nota come “di Stoccolma”: sono recluso in uno spazio non mio, sottoposto ad un condizionamento, in balia di un manipolo (beh, i rapitori sono due, ma come escludere dei complici, anche solo fiancheggiatori o “cattivi maestri”?) che detta le proprie regole con insistente noncuranza, costringendomi ad un innaturale regressione temporale.

Dovrei opporre una qualche forma di resistenza
, reagire sulla base di semplici constatazioni: ognuno di questi suoni proviene dal passato, si tratta di un prodotto destinato probabilmente a suonare ammaliante per i giovanotti che sciamano la sera tra una discoteca e l’altra, beatamente ignari della muffa dalla quale sono stati ripuliti, ad esempio, molti arpeggi di synth.

Non può piacermi, sono troppe le apparenti ingenuità che lo attraversano.

Eppure lo sto riascoltando, ‘sto disco.

Dovrei tentare una fuga
, tra l’altro semplice come premere stop.

Un’ottima occasione si presenta durante la buffa e inquietante andatura grottescamente marziale di “One Hit”: non dovrei sopportarla. Dovrei essere irritato, credo. E i rapitori sono troppo occupati nella propria messinscena divertita per badare a me. Anche se giunge solo verso la fine, è il momento propizio per svignarsela.

Eppure resto qui, in attesa di risentire per l’ennesima volta la flebile traccia di chiusura, quella “Still Light” sempre sul punto di svaporare come il suono demodè sul quale si appoggiano le due vocine, ora sussurranti. Come se improvvisamente si rendessero conto che il gioco è finito.

Nostalgia del presente


Si torna nella realtà, nel presente.

Ben più inquietante di quel futuro che molti anni fa sembravano evocare i dischi che loro hanno saccheggiato. Di un inquietudine diversa, dalla quale i ragazzi della terra di Svezia sembrano voler fuggire.

In bilico tra un passato, che per loro non esiste se non come serbatoio di suggestioni, ed un confortevole futuro disegnato allora.

Forse afflitti da una strana forma di nostalgia.

La nostalgia del presente.

Un presente che, a differenza del futuro, sembra non arrivare mai.


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