Quattro autentici marziani, e non solo come musicisti.

Nell'era del Cafone Globale la loro compostezza e il loro stile impeccabile sembrano davvero qualità surreali, e senza dubbio a qualcuno appariranno come bizzarri formalismi di altri tempi, ormai molto lontani. Quella rigida eleganza nel vestire, invariabilmente in smoking nero, quell'aria seria e quasi tetra, da vecchi e saggi gufi neri, accentuata dalle barbette a punta, e soprattutto la predilezione per il teatro, luogo della musica "colta" per eccellenza, rispetto ai normali ambienti dove si suonava il jazz, chissà a quanti potenziali appassionati saranno sembrati inutili snobismi. E invece erano solamente i segni esteriori di un'estrema esigenza di dignità, la stessa sintetizzata in queste parole di John Lewis: "Io sono un nero americano orgoglioso di esserlo, e desidero esaltare tutta la dignità di questa mia posizione". John Lewis, pianista colto di formazione classica (con un particolare interesse per Bach), sobrio e portato a non strafare, insomma una specie di Bill Evans nero, era la mente del quartetto e il compositore della maggior parte dei brani inediti. La vera star della formazione era però Milton (detto Milt) Jackson, vibrafonista estroverso e di abilità funambolica, contraltare di Lewis e quindi, come spesso succede, suo partner ideale. La loro perfetta integrazione si può apprezzare nei duetti, magici intrecci tra le deliziose note del vibrafono, che sembrano lasciarsi dietro una scia argentea, e quelle più classiche e severe, sempre impeccabilmente dosate, del pianoforte. Notevole anche l'apporto del batterista e percussionista Connie Kay, che con i suoi triangoli, campanellini e accessori vari forniva ulteriori fantasiosi colori al sound del gruppo, ben al di là del suo compito di accompagnatore ritmico. Più ligio a questo compito, ma ugualmente dotato di grande personalità, Percy Heath, contrabbassista di notevole valore tecnico, particolarmente abile nel "pizzicato". Insomma quattro validi solisti pefettamente amalgamati in una band che non a caso dagli anni '50 agli anni '80 sarebbe rimasta invariata, fenomeno più unico che raro nel jazz.

Meno noto di altri capolavori come "Django" e "Concorde", questo "Fontessa" appartiene a pieno titolo al loro periodo d'oro, corrispondente più o meno alla seconda metà degli anni '50. Lo strano titolo, dall'etimologia misteriosa, deriva da un ambizioso progetto di John Lewis: quello di realizzare una suite sulla Commedia dell'Arte italiana, con tanto di caratterizzazione di alcuni personaggi, come Arlecchino, Colombina e Pierrot. Il risultato è appunto "Fontessa", e lascio giudicare agli storici del teatro quanto John Lewis abbia azzeccato i suoi ritratti, per limitarmi ad esaltare l'aspetto musicale di questa complessa suite con una sola parola: perfezione. Quella che rende lievi come una brezza estiva gli 11 minuti di "Fontessa", con la loro alternanza di incisi pianistici classicheggianti e deliziosi assoli di jazz pacato, a tratti appena sussurrato, con Milt Jackson a fare la parte del leone, ma senza umiliare gli altri. Sempre di John Lewis è "Versailles", che apre il disco con una celestiale armonia di suoni tintinnanti: sono le voci di pianoforte, vibrafono e triangolo che si sommano miracolosamente, senza la minima traccia di uno stucchevole "effetto carillon". "Bluesology" è invece di Milt Jackson, ed è un esempio lampante di come questi sofisticati musicisti siano così versatili da adattarsi anche ad una forma di musica "terrena" e sanguigna come il blues, che visto attraverso la loro lente appare come un solido tessuto cucito dal contrabbasso e ornato da virtuosismi di batteria e da delicati assoli del piano e del vibrafono. Ma il godimento dell'orecchio è ancora più assoluto nelle "ballads", e nel disco per fortuna ce ne sono ben tre, anche se tutte di autori esterni al gruppo. L'inizio di "Angel Eyes" è al limite dell'ipnosi: le note del vibrafono sembrano rimanere sospese in aria per un'eternità, e anche i successivi assoli rapiscono totalmente l'udito. Nella classicissima "Over The Rainbow" la dolcezza dei duetti tra Lewis e Jackson esalta come non mai questa melodia senza tempo, ormai a tutti gli effetti musica classica, ma anche la meno nota ma bellissima "Willow Weep For Me" è trattata con la stessa cura e soprattutto con la stessa estrema grazia. Infine un omaggio a Dizzy Gillespie, nella cui band Milt Jackson si è fatto le ossa: "Woodyn' You", che fa "pendant" con l'iniziale "Versailles" per vivacizzare opportunamente un album straordinariamente ricco di momenti incantati, ma fino a questo punto un po' avaro di ritmo. E così, con i quattro fenomeni che non perdono il loro aplomb neanche alle prese con le nervose cadenze gillespiane, finisce in bellezza un disco che sazia gli orecchi più ingordi e al tempo stesso dopo 50 anni costituisce ancora una perfetta lezione di stile.

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