"The Revolutionary Army of the Infant Jesus": dietro a questo lungo e curioso nome si cela una delle realtà meno appariscenti di quella costellazione di band ed artisti che possiamo incasellare nell'area vasta del neo-folk. Dico “meno appariscenti” e non “misteriose”, perché se davvero poco si sa di RAIJ, non è per una calcolata strategia di marketing del “mistero” (come spesso accade in suddetti ambienti), ma per la natura schiva dei componenti della band e per la loro evidente volontà di stare lontano dal bagliore dei riflettori. Obiettivo raggiunto, dato che le informazioni relative a questa sconosciuta band inglese sono in effetti estremamente scarse.

Il curioso e lungo nome, anzitutto, trae ispirazione dall'ultimo film del maestro Luis Bunuel “Quell'oscuro oggetto del desiderio”, del 1977: L'Armata Rivoluzionaria del Bambin Gesù è infatti il gruppo terroristico di fantasia che, assieme a movimenti di estrema sinistra, fa la sua comparsa alla fine della pellicola sconvolgendo la Parigi dei “due” tormentati protagonisti. Nel 1985, invece, e precisamente a Liverpool, si hanno i natali della band, composta da Jon Egan (ex Dead Trout, li conoscete? Io no), David Seddon, Paul Boyce, Sue Boyce e Les Hampson (mentre Bronek Kramm, Angela Taylor e “Bill” si uniranno in seguito): un'esperienza musicale esaltante, che tuttavia ebbe vita assai breve su questo mondo, il tempo appena sufficiente per dare alla luce due album e due EP. L'ultimo concerto: nel 1998, poi l'oblio.

Un oblio durato ben quindici anni, fino alla pubblicazione, proprio in questi giorni, del cofanetto “After The End” (distribuito in sole cinquecento copie), che rispolvera l'intera discografia della band, compreso qualche remix ed inedito datato 2013. Che sia un nuovo inizio, questo è ancora presto per dirlo; gli intenti della band, che fra l'altro a partire da giugno scorso avrebbe ripreso una timida attività concertistica, non sono mai stati chiari e probabilmente mai lo saranno. Ma è già una bellissima notizia il poter oggi accedere finalmente alla loro musica grazie a questa provvidenziale pubblicazione, ed adesso vi spiego perché.

Di casi in cui la popolarità non coincide nemmeno alla lontana con il valore artistico della proposta ne abbiamo a iosa, ma è importante precisare che i RAIJ non sono sconosciuti e quindi (di conseguenza, automaticamente) fighissimi: la loro musica è davvero qualcosa di particolare e stupendo, e il fatto che forse non avremmo mai potuto ascoltarla è un brivido freddo che corre lungo la schiena durante l'ascolto. Anticipo fin da subito che sarò costretto a dilungarmi, ma tenete presente che: 1) questa recensione vale per tre (ossia per i tre cd che sono contenuti nel box, circa centocinquanta minuti di musica); 2) considerata la scarsità di informazione diffusa in rete, pare cosa buona e giusta redarre almeno una pagina esplicativa in italiano che ci parli un poco dei RAIJ.

Che, con estrema sintesi, potremmo definirli un bell'ibrido fra i Dead Can Dance e gli album della maturità dei Current 93 (quelli di “Thunder Perfect Mind”, tanto per intenderci). Ma la vicinanza stilistica (per lo più dovuta all'affondo in atmosfere folk/bucoliche unite ad un'avanguardia dark/industriale che ne sporca le mistiche evoluzioni) a certe cose pubblicate ad inizio anni novanta da David Tibet e soci non deve indurci nel catalogarli come folk apocalittico tout court. Ben più ampio, infatti, appare il range di sonorità abbracciate: folk europeo, musica etnica, sapori mediterranei, mediorientali, musica sacra, misticismo (e doveroso a tal riguardo è precisare che, nonostante si peschi a piene mani dalla tradizione cristiana, i RAIJ non si definiscono una band cristiana), senza disdegnare puntate nei territori dell'industrial, del noise e dell'avanguardia. Il predominio della voce femminile ricongiunge la band al filone ethereal, ma la ricchezza della proposta e il fatto che quando la band componeva e pubblicava dischi certe etichette non erano ancora in voga, ci fa certo pensare che i RAJI meritino una menzione a parte.

Quindi ricapitolando: uno compra alla cieca un cofanetto di ben tre cd di un gruppo sconosciuto dell'area dark e derivati, in piena estate per giunta, con la vaga sensazione che il pacco sia dietro l'angolo, ed invece si ritrova a vivere una esperienza musicale sconvolgente, una scoperta che procede album dopo album, brano dopo brano, in un crescendo di emozioni che può suonare più o meno così: 1) toh carino, mica male questi qua; 2) accidenti, mica me l'aspettavo questa roba; 3) maddai, questi sono dei fenomeni!!! E vi dirò di più: questa musica si sposa anche con la stagione che stiamo vivendo, anzi forse è la musica più “estiva” che può capitare alla portata delle orecchie dei cultori del verbo oscuro.

Si parte con il buon “The Gift of Tears” (1987), primo album licenziato dalla band. Si parte con “Come Holy Spirit”, quasi dieci minuti che ci fanno già capire le coordinate su cui andrà settato il nostro ascolto: chitarra acustica, flauto, intrecci eterei fra voci femminili e maschili, ma con una base tribale ed un bel basso in evidenza che già esplicano la cifra stilistica dei Nostri. Il peso delle percussioni e dell'apparato ritmico in genere, l'uso fantasioso dei fiati e degli strumenti etnici, sono elementi che discostano fin dall'inizio i RAIJ dalle basi minimali a cui generalmente è abituato il fan del folk apocalittico. Folk apocalittico che tuttavia emerge già dalla traccia successiva, l'ottima “Tales from Europe”, dominata da un flauto ipnotico, drum machine in crescendo e il suono rugginoso e riverberato di voci campionate. Ma al di là degli aggettivi e delle etichette, è bene sottolineare l'impressione di “bel sentire” che fin da principio il platter suscita nell'ascoltatore. Una proposta variegata, quella dei RAIJ, che osa sconfinare nella sperimentazione ambient/etnica della strumentale “De Profundis” (dalla forte ascendenza mistica), per tornare a ballate folk (“The Singing Ringing Tree” su tutte) che, se potessimo utilizzare termini di paragone contemporanei, farebbero venire in mente l'ethereal-folk di band come Unto Ashes e In Gowan Ring (ricordiamoci comunque che si sta parlando del 1987, anno in cui usciva il “Brown Book” dei Death in June a formalizzare l'esistenza del genere stesso, mentre i Current 93 all'epoca avevano appena iniziato a giocare con la materia folk, con risultati ancora acerbi e non sempre convincenti). E giusto perché si parla di Current 93, come non citare l'intreccio di chitarra acustica e flauto di “Beauty after the Fall”, che ricorda da vicino le ambientazioni del già citato “Thunder Perfect Mind” (che tuttavia uscirà ben cinque anni più tardi)? Con le ultime quattro tracce (“Dream”, “Lament”, “Transfiguration” e “Communion”, probabilmente da vedere come un'unica suite) finisce per prevalere l'indole etnica dell'ensemble, essendo esse basate su percussioni, cori mantrici (laddove presenti) e pervasi da un'impalpabile aura mistica. Questi sono i RAIJ del loro esordio: una band già matura, composta da musicisti competenti, capaci di edificare un suono ammaliante, ricco di spunti ed invenzioni che poco hanno a che fare con il minimaslimo (spesso scelta forzata per motivi puramente tecnici) vigente nel genere.

Su queste basi si evolve il secondo LP “Mirror” (1991), ma il discorso si sposta su un fronte maggiormente avanzato di sperimentazione, contaminazione stilistica e maturità artistica. L'iniziale “Shadowlands”, pur presentando un motore perfettamente oliato, poco si distanzia da quanto fatto in passato; il sorprendente assolo di sax nel finale di “Inmaculado”, però, è una bella sorpresa: mai si era udito qualcosa del genere all'interno dei recinti angusti del folk apocalittico (fra jazz elegante e pop anni ottanta!, il tutto sopra un sottofondo di percussioni in crescendo e tastiere stranianti), la dimostrazione che la musica dei RAIJ è qualcosa di libero e assolutamente fuori dagli schemi. I rutilanti battiti della drum machine, i feedback di chitarra elettrica, i fraseggi spezzati e l'effettistica di “Hymn to Dionysus”, come del resto il piano classicheggiante (splendidamente suonato) che trasporta torrenziale le scarne voci campionate di “Nostalgia” (con tanto di finale affidato a solenni cori da chiesa), il tango malinconico di “Theme de “L'Homme qui ne croyait pas en lui-meme” (con l'immancabile sax da bettola in sottofondo), la virata brusca verso il folclore più agreste con quel gioiellino di folk-ballad che è “Psalm”, o l'irruenza industrialoide di “Nativity”, a base di chitarre sprizzanti elettricità ed una inquieta voce megafonata, l'oscuro tribalismo di “Man of Sorrows”, infine, ne sono una conferma incontrovertibile: i RAIJ amano miscelare sacro e profano, continuamente, stordendo l'ascoltatore con improvvisi cambi di rotta, all'insegna di una imprevedibilità mai fine a se stessa, ma dettata da ispirazione, coerenza concettuale e padronanza dei mezzi espressivi a disposizione.

I RAIJ se ne sarebbero poi usciti nel 1993 con una succulenta ristampa del primo album, contenente anche l'EP “Le Liturgie pour le Fin du Temp”, e nel 1995 avrebbero concluso la loro carriera con un altro EP, lo splendido “Paradis”, loro epitaffio artistico. Tutto questo, e qualcosa di più (presenti tre inediti ed una traccia live), è presente nel terzo cd del box, raccolto sotto il nome di “A Rumour of Angels”, che a parere di scrive rimane la più bella testimonianza della band, testimonianza oggi lustrata a dovere (anche tramite remix di ottima fattura) nel presente e provvidenziale “After the End”. La testimonianza più bella perché le sorprendenti ritmiche e i bassi dub di “Cantata Sacra” (primo brano inedito proposto) e “Le Monde du Silence”, ipnotici nella prima, incalzanti nella seconda, pongono i RAIJ su un gradino di ulteriore emancipazione rispetto ai canoni del folk apocalittico da cui erano partiti. La produzione, sempre più curata, permette di evidenziare in tutto il loro splendore i molti pregi della band, mentre l'aggiunta di un pizzico di elettronica per niente invasiva ammoderna il sound, rendendolo ancora più attuale e al passo con i tempi. “Diae Irae”, con le sue percussioni destabilizzanti e l'effettistica in primo piano, addirittura proietta i Nostri verso lidi cosmici. La riproposizione live di “Pslam”, invece, espande l'originale fino a farla divenire un trip psichedelico di dodici minuti: un saliscendi emotivo dettato dall'andamento ondivago della fisarmonica e dalle accelerazioni/decelerazioni del comparto ritmico. Ma la palma di miglior traccia (e probabilmente dell'intera carriera) è la maestosa “Paradis” (altri undici ottimi minuti), aperta da un desolante soliloquio di voce femminile aliena, per poi essere bruscamente squarciata a metà strada da ruvide chitarre elettriche e percussioni in inesorabile ascesa: un irrequieto ribollire mistico che tocca vette di intensità raramente sentite e che chiama in causa direttamente gli Swans più metafisici, con i quali i nostri RAIJ hanno dimostrato di avere più di un punto in condivisione. Se la successiva “She Moved Through the Fair” ci riporta a confortevoli umori folk, l'insinuarsi sornione del flauto prima (ipnotizzante!), e l'assolo-fiume del violino elettrificato dopo (avvincente!), evidenziano ancora una volta l'eccelsa preparazione dei musicisti e l'importanza ricoperta dalla dimensione strumentale, laddove la stupefacente voce femminile, una splendida sirena capace di passare con estrema disinvoltura da un recitato evocativo ad impervi gorgheggi che hanno del soprannaturale, illumina il tortuoso percorso artistico dell'ensemble britannico. Gli inediti “Suspended upon the Cross” e “After the End” poco aggiungono a quanto detto fin'ora, ma alimentano la fiamma della speranza, testimoniando un ritorno che non si esplica solo nella dimensione live, ma anche con un ben più interessante ingresso in studio.

Insomma, al di là della difficile reperibilità del prodotto, “After The End” rimane un must per tutti coloro che amano le sonorità appena descritte. Adesso sta a voi farlo vostro al più presto!

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