"Sarai la tomba sulla quale riposerò, e le note di questa canzone la mia sinfonia di fantasmi". E' un Chris Eckman indemoniato quello che canta nel lamento finale di "Ended up a stranger".
Divoro la carne di "Ended up a stranger" fino a scoprirne le ossa; sono il parassita avvinghiato alla sua pelle, il vampiro che tiene serrati i denti al collo.
"Ended up a stranger" è - sul tema del dolore - opera d'arte suprema: è l'apoteosi di Bach, è la favola su come seguire il proprio sogno di Coelho, senza raggiungerlo.
"Ended up a stranger" è - per un ogni spirito viaggiatore - opera d'arte immensamente sottovalutata: è il paradiso artificiale di Baudelaire, la crisi epilettica di Dostoevskij, la tazza da tè di Proust.
E' il violino serrato e i tamburi ossessivi di "Lazarus heart", la cavalcata alt.country di "Radiant", la litania sofferta di "More heat than light". "Ended up a stranger" è la pioggia, il vapore e la velocità di William Tucker, è lo spirito cadavere di Dalì.
E' la lacrima che - troppo spesso - ho perduto per strada.
E' il soul che si sposa con il folk (l'interminabile "Life: The Movie"), la viola soffocata che richiama tempi lontani e perduti ("Fallen Down Moon"), è il rock che mi stupra con le sue spire di chitarre dolorose ("See It In The Dark"), è l'incesto strumentale da cui nasce l'orfana ("Mary Edwards"), figlia indecisa nel limbo tra lounge e post-rock.
Sono le parole che - troppo spesso - non hanno trovato un orecchio che abbia saputo ascoltare.
Se mai vi capitasse d'esser vivi, non potrete non commuovervi per ogni istante che avete vissuto.
Sono i Lambchop che siedono a banchetto con i Willard Grant Cospiracy ("Lest we forget"), i Black Heart Procession che imparano Billy Bragg nella struggente "Wislow place". E' l'optigono che rigurgita in "Incidento", il piano dolente che vomita in "Climb".
"Oh Signore, sono diventato uno sconosciuto tra le mie vecchie ossessioni", canta un Chris Eckman indemoniato nel lamento finale, e quella chitarra non smette di spezzarmi in due; ed "Ended Up A Stranger" divento io, divento io quella viola, ed io quella chitarra stessa a spezzarmi in due ogni volta, e mie quelle vecchie ossessioni.
Un viaggio immenso, quello dei Walkabouts, partito oramai da vent'anni in una Seattle ancora acerba ed impreparata al sangue grunge, ed approdato ora alla perfezione.
Un disco sul dolore, sulla perdita, sulla morte, sulla tomba del passato sulla quale riposiamo.
Se mai vi capitasse di morire (che Dio ve ne scampi) non potrete non commuoversi per ogni istante di vita che avrete perduto.
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