Inesauribile la vena di questo geniale duo di NY. Nessuno ha fatto pop music come loro. Nessuno ha irriso con tanta maniacalità le cadenze e le maniere più trite lasciate in eredità da idoli, menestrelli e cantori di ogni epoca. Nessuno ha prodotto tanta intelligenza da mezzi così stupidi: grezzi marchingegni analogici low-cost in voga a fine anni 80, tastiere Bontempi responsabili dei suoni e dei ritmi più anti-estetici di sempre. Ispirati maestri della home-music, eredi scanzonati e disimpegnati dei maggiori parodisti della musica popolare moderna, da Zappa ai Residents, ilari provocatori di paradossi fra i più improponibili, i TMBG realizzano con "Flood" (1990), loro terza fatica, un'inesausta maratona di motivetti talmente disarmanti nel loro ostentato kitsch da non riuscire ad arrivare alla fine dell'album senza un sorriso ebete stampato sulle labbra. 

Rastrellano ogni codice musicale, lo pelano, come si fa con gli ortaggi, lo lasciano da parte, poi trovano la pietanza che peggio vi si potrebbe abbinare, la triturano e ne fanno un gustoso involtino. Particolarmente preso di mira è il country'n'western, di cui il tandem Flansburgh/Linnell distrugge ogni alone romantico, consegnando all'ascoltatore la scabra, straniante, "brechtiana" filastrocca di "Dead". Balli di gruppo in un bivacco di Frontiera animano la festa di "Particle Man", mentre la spensierata melodia campestre non-stop di "We Want A Rock" si ricicla all'infinito come amavano fare sovente i colleghi di scorribande Camper Van Beethoven, Young Fresh Fellows e Dead Milkmen. 

Plateale arena-rock e meste fisarmoniche si incontrano nell'amplesso più improbabile, come uno stallone carico di viagra che pretende di farsi una morigerata damigella, fino a quando una trombetta non irrompe su un comico ritmo salsa, tanto per rovinare la festa: ecco "Your racist friend"! E se "Twisting" altro non è che un vivido flashback nei magici garage sixties, "Hot Cha" è lo swing dei marziani: fiati da big band impietosamente sintetizzati da extra-terrestri senza sangue nelle vene. Nessuna pietà nemmeno per il reggae, dissacrato nella narcolettica e svagata "Hearing Aid".

Difficile isolare un capolavoro in questa galleria di hit sfregiati: più che il primaverile stornello "Birdhouse in Your Soul", merita la palma del momento più memorabile "Istanbul (Not Constantinople)", sfrenata danza turca, capace di evocare scenari cine-letterari da "Mille e Una Notte" (esaltati dal videoclip stile Looney Tunes), mentre il cantante fa notare che una volta Nuova York si chiamava Nuova Amsterdam. Il non-sense spudorato di questo album diventa particolarmente travolgente nell'ultima parte dell'opera, quando i motivetti più cretini vengono cantati coi registri più cartooneschi (oltre al proverbiale nasale presente un po' ovunque, spiccano per demenzialità il vocione di "Whistling in the dark" e lo scioglilingua di "Letterbox"), gli immaginari hollywoodiani si sovrappongono in un sincretismo suggestivo ("Minimum wage", sonata per frustate e navicelle spaziali) e l'assurdismo naif di band art-wave come B52 e Monochrome Set viene rinvigorito da ulteriori dosi di fantasia in "Sapphire Bullets of Pure Love", estasi di xilofoni stupefatti. 

L'intelligenza mascherata da idiozia è forse la miglior qualità dei Giants, misconosciuti giganti della musica pop nonchè della sua negazione, giullari di un calderone musicale onnicomprensivo, fagocitato da decenni di produzione discografica e di serializzazioni mediatiche. L'effetto bulimico scaturito da questo zapping disorientante è l'emblema di un approccio enciclopedico alla Storia della musica popolare, in cui è sempre più difficile cogliere il confine fra omaggio e canzonatura, ritratto e caricatura: la canzone, specie la ballata, smette di essere un veicolo per un messaggio più o meno serio, diventando un animale ammaestrato da esibire in un circo fra le ghignate di un pubblico vorace.

E noi ce la ridiamo di gusto...

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