Non sapevo se aspettarmi tanto o volare basso e sapere di dovermi accontentare del solito comunque ottimo album prog-metal. Perché ormai lo sappiamo, la proposta dei Threshold è all’incirca la stessa da 25 anni e sono assai poche le possibili sorprese… però sono possibili, e poi quel qualcosina che fa la differenza fra un disco e l’altro c’è, anche se bisogna essere bravi e analitici per scovarlo. Nel 2017 un pochino avevano sorpreso, ci avevano piazzato lì un insolito doppio concept album con atmosfere più dilatate del solito e con l’impronta prog più alta da circa 18 anni, l’illusione di poter alzare l’asticella l’avevano data eccome.

Cosa succede in questo “Dividing Lines”? Pensavo nulla e invece qualcosa succede, nessuna rivoluzione ma un piccolo tentativo di diversificazione viene fatto. L’album è nel complesso più immediato rispetto al più pretenzioso concept precedente ma ovviamente non è questo il punto. Fondamentalmente si cerca, pur mantenendo rigorosamente intatto il marchio di fabbrica, di riorganizzare l’impalcatura di molti riff, di non suonare troppo prevedibili, di creare un pochino di varietà. Sono tutte oscillazioni minime, però si fanno notare, è chiaro sì che i Threshold quelli sono e quelli rimangono, ma qualcosa che porta leggermente fuori dalla monotonia la si avverte, si capisce che un minimo sforzo per rinfrescare la proposta è stato fatto. Vediamo che cosa…

Beh ad esempio si è cercato di non abusare di quei riffoni martellanti a metà fra un thrash metal levigato e un hard rock iperpotenziato che abbondavano fino all’altro ieri; li troviamo in tutta la loro forza e tipicità nel brano “Complex”, in “Haunted” ma già più smorzati, nel resto decisamente meno. In generale tutto il lavoro chitarristico sembra più vario e ridisegnato senza che sia però stravolto. In “Silenced” sono riusciti a metterci la giusta dose di aggressività servendosi di riff piccoli e strozzati, in “King of Nothing” troviamo qualche passaggio un po’ più virtuoso del solito e alcuni riff taglienti ed aperti che lo fanno somigliare ad un brano dei Fates Warning più recenti, le strofe di “Lost Along the Way” sembrano piccole marcette ritmiche alquanto particolari. Anche per quanto riguarda le parti più lente si nota qualcosa di diverso, viene dato decisamente poco spazio a quelle solite parti in clean che alla lunga diventavano ritrite, si preferiscono note un po’ più acute comunque ben inserite nel mood sempre molto grigio ed autunnale.

Quello che varia di più comunque è il tastierista Richard West. In diverse occasioni fa un uso piuttosto pesante e geniale dell’elettronica, dai suoni abrasivi di “Haunted” a quelli robotici di “Hall of Echoes”, fino alle schegge ipnotiche di “Complex”, l’intro di “Lost Along the Way” ricalca perfino i Depeche Mode dell’ultima era; ma anche i fraseggi e gli assoli non suonano mai alla stessa maniera, non si sente sempre il solito assolo acidulo e stridente (quello in “Lost Along the Way” è perfino emersoniano); non mancano nemmeno suoni brillanti di fattura neo-prog e pure qualche tocco orchestrale.

Qualche sorpresa arriva anche da parte del batterista Johanne James. L’avevo sempre considerato un batterista “normale”, invece qui fa alcune cose che raccontano un batterista di ben altro spessore; l’intreccio di colpi che caratterizza le strofe di “Hall of Echoes” è abbastanza fantasioso, le sfuriate virtuose che piazza in “Complex” sono davvero incredibili. In pratica ci sta dicendo che è un mostro anche lui, sono arrivato a pensare che stia militando nella band sbagliata, una band forse poco tecnica per la sua bravura, chissà cosa potrebbe regalarci in una band strumentalmente più complessa e tentacolare…

Non sorprende invece il cantante Glynn Morgan, è un mostro e già si sapeva, un vocalist che sa essere tremendamente aggressivo senza urlare, mantenendo una straordinario equilibrio fra melodia e grinta. Inoltre qui le linee vocali sono pensate appositamente per lui, mentre nel precedente album erano scritte per Damian Wilson per poi essere cantate da Morgan.

Tuttavia tutto quest’entusiasmo iniziale pare abbastanza effimero, ai primi ascolti ci si ringalluzzisce per una presunta ventata di freschezza ma poi questa euforia svanisce abbastanza presto, a lungo andare ci si accorge che in realtà è un normalissimo album dei Threshold, è comunque uno dei tanti della discografia, non è il disco destinato a rimanere negli annali, ha una longevità piuttosto bassa. L’impressione che si ha è quella di una band che ha paura di sperimentare, che potrebbe tradursi in paura di fare il passo falso e/o di perdere qualche solido consenso, lo si fa ma con il freno a mano tirato.

Ci si domanda quale degli ultimi due album sia più coraggioso, è una domanda a cui è difficile rispondere perché entrambi provano perlomeno a cambiare qualcosina, difficile stabilire se fa più scalpore il doppio concept dalle melodie dilatate o un accenno di restyling di suoni e ritmiche, in entrambi i casi si tratta di un passo avanti piuttosto breve, per quanto pur sempre un passo avanti. Diciamo che possiamo permetterci di alzare un pochino le aspettative quando si parla di Threshold mettendoci però l’anima in pace e fissandoci in testa che oltre quel limite non andranno.

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