Lo sappiamo, i Threshold sono gli Ac/Dc (volevo dire addirittura i Ligabue ma il paragone diventava davvero troppo pacchiano) del progressive metal: non hanno mai veramente provato ad osare, a tentare una nuova strada. Non so che paura abbiano avuto fin dall’alba dei tempi ma sta di fatto che se prendi un disco di oggi e ne prendi uno di vent’anni fa e li fai ascoltare a chiunque sia non saprà dirti quale è stato realizzato nel 2017 e quale nel 1997. Tuttavia questa mancanza di rinnovamento non ha mai intaccato la loro attitudine a produrre dischi grandiosi, mai un passo falso nella loro carriera. E non ha mai portato a far giudicare la band come tediosa e sfasciapalle, rischio che con una formula sempre più o meno uguale si corre eccome. Probabilmente il fatto è che la ripetitività in ambito progressive è sicuramente meno tediosa che in ambito pop/rock, forse perché essendo un genere fatto di elementi piuttosto vari non è mai davvero ripetitivo; o forse il fatto è che lo stile dei Threshold è un mix assolutamente unico di thrash metal, hard rock, progressive, AOR ed innesti elettronici e quindi suscita sempre un pizzico di curiosità.

Qualcuno allora si domanderà… “ma se la minestra è sempre la solita cosa ci sarà da dire sul nuovo disco?”… Beh io rispondo che qualcosina da dire su questo “Legends of the Shires” c’è. Per esempio che il disco è il più prog e quello dall’atmosfera più profonda ed intensa realizzato da anni e anni; più prog non solo rispetto ai tre dischi precedenti ma addirittura dai tempi di “Clone”. Perché l’approccio dei primi anni del gruppo era effettivamente meno immediato che nei tempi più recenti; già più leggero e accessibile risultava quello mostrato nella triade centrale “Hypothetical” - “Critical Mass” - “Subsurface”, la fase probabilmente più equilibrata e quella che ha probabilmente riscosso più consensi e che li ha resi apprezzati e rispettati. Ma è stato il successivo passaggio alla Nuclear Blast a portare la band verso una più decisa semplificazione della proposta, con tre dischi più esplicitamente diretti e poco profondi.

Ora invece la band ha fatto un netto passo indietro, complicando le cose anziché semplificarle come nei precedenti tre dischi, e alcuni elementi ce lo fanno capire; ad esempio il fatto che per la prima volta si tratta di un disco doppio, per un totale di ben 82 minuti di musica, che si tratta di un concept album, che vi sono ben 5 brani di durata superiore ai 7 minuti (non accadeva addirittura dal primo album) e vi sono perfino un’intro acustica e un intermezzo pianistico senz’altro inusuali per il gruppo.

Sotto l’aspetto della line-up è invece da menzionare la terza separazione nel corso della loro carriera dal vocalist Damian Wilson e il ritorno di Glynn Morgan, che aveva magistralmente cantato solamente nel capolavoro datato 1994 “Psychedelicatessen” per poi sparire nel nulla; rieccolo invece dopo oltre vent’anni in gran spolvero, autore di una prestazione grintosa e convincente.

Ma entriamo nel vivo dell’opera. Come detto abbiamo ben 5 brani lunghi a testimoniare la marcata vena progressive dell’album. “The Man Who Saw Through Time” presenta i primi minuti delicati, guidati dal piano e dai ritmi tipici di una ballad ma poi si evolve in qualcosa di più forte mantenendo però la melodia in primo piano sull’aggressività, per poi tornare lenta nel finale; un brano che per struttura potrebbe ricordare da vicino “Pilot in the Sky of Dreams”. “Trust the Process” è probabilmente il brano migliore dell’album, forte di un potente connubio chitarra-voce nelle strofe ma soprattutto di un notevole dinamismo che si traduce in pregevoli finezze strumentali e variazioni ritmiche. Spicca anche la cupa “Stars and Satellites”, con quei tocchi di chitarra delicati e oscuri e quella sublime parte lenta centrale; per struttura e cupezza potrebbe vagamente ricordare “The Latent Gene”. “Snowblind” colpisce invece per la disinvoltura con cui alterna sfrecciate aggressive e pause melodiche, notevole varietà di ritmiche e di soluzioni strumentali interessano invece “Lost in Translation”.

Ma anche se andiamo a prendere i brani meno lunghi notiamo che quella di essere troppo easy non è la prerogativa dell’album; “On the Edge” ad esempio ha dei particolari passaggi di chitarra nelle strofe e delle significative ed improvvise accelerazioni, “Subliminal Freeways” pur nella sua semplicità ha quelle pesanti tastiere sinfoniche che donano al brano un’atmosfera intensa e surreale.

Pure le ballad sono davvero di un certo spessore; “The Shire (Part 2)” e “State of Independence” sono senz’altro superiori ad alcune recenti come “That’s Why We Came” o “Lost in Your Memory”, per non parlare della splendida “Swallowed”, che riprende la parte lenta di “Stars and Satellites” ed è più che altro una riuscitissima outro.

Poi come già detto ci sono “The Shire (Part 1)” e “The Shire (Part 3)” che sono intermezzi insoliti per la band: la prima è un’intro semi-acustica la cui idea verrà ripresa ed approfondita nella parte 2, la seconda invece è un interludio di piano la cui voce di sottofondo è quella dell’ex-bassista Jon Jeary.

Gli unici due brani potenti e un pochino ruffiani al punto da sembrare usciti dalle sessions degli ultimi dischi sono “Small Dark Lines” e “Superior Machine”, due brani da sfrecciate in automobile che non avrebbero sfigurato nella prima parte di “Dead Reckoning”.

Possiamo quindi concludere dicendo che i Threshold pur non cambiando granché la formula ma semplicemente ritornando ad una maggior complessità hanno sfornato il miglior album da almeno una dozzina d’anni, che può giocarsela alla pari con diversi loro classici pubblicati negli anni ’90 e 2000. Certo, se avessero osato un pochino di più nella loro carriera il mio (e l’altrui) giudizio su questa band sarebbe probabilmente più alto di quanto già lo è, ma finché continuano ad avere un mix unico e a sfornare dischi di questo calibro possono permettersi di ripetersi quanto vogliono.

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