Sospesi su una linea sottile tra pathos e logos, tra cuore e cervello, tra soft e loud, questi sono i Thrice.

Sarebbe stato un peccato perdere per strada l’intelligenza artistica di questa band californiana sempre sul pezzo e mai banale. Una band che si è meritata il rispetto sul campo, fautrice di una maturazione artistica che ha pochi eguali per costanza e rendimento. Non tutti sanno passare senza sbavature dal post-hardcore (“The Artist in The Ambulance”) ad una rivisitazione vitaminizzata dell’indie (“Vheissu”) fino a sperimentazioni elettroniche e al country (i volumi di “Alchemy Index”) fino alle tentazioni e post-dilatazioni rock (“Major/Minor”).

Dopo la pausa data da un’intensa attività live e di studio, il ritorno alla attività live nel 2015 è stato il naturale trampolino di (ri)lancio per tuffarsi definitivamente nella mischia con “To Be Everywhere is to Be Nowhere”.

I Thrice hanno sempre regalato notevoli sorprese ai propri ascoltatori quasi ad ogni uscita, e da qui la grande curiosità che aleggiava intorno all’ultima fatica.

La nona fatica in studio pur traendo spunto da alcune precedenti esperienze, costituisce un episodio a sé stante. Sicuramente rispetto al precedente “Major/Minor” si nota un parziale indurimento delle sonorità a discapito di certe dilatazioni post-rock, qui prosciugate.

Lanciato prima dell’uscita del platter “Blood on the Sand” è quello che si potrebbe definire il singolo perfetto, pezzo che scorre via liscio e veloce, orecchiabile e che si nota anche per un testo anti-guerra. I riferimenti alla situazione politica più o meno celati non mancheranno nemmeno in altre canzoni, ove viene ripresa anche la vicenda della talpa Edward Snowden che mise in imbarazzo il governo USA per l’attività di spionaggio illegale dei propri cittadini.

Pezzi come “Hurricane” e “Long Defeat” evocano grandi spazi all’aperto e rappresentano due dei migliori episodi di questa avventura, con la seconda che oltre che per il testo si fa notare per una notevole impennata emozionale in cui risalta la voce di Dustin Kensure.

La sorpresa in negativo invece è rappresentata da “Wake Up” pezzo arena-rock prevedibile che mi aspetto da una delle mille band finto alternative e non dai Thrice. Altro passaggio che mi lascia un po’ perplesso è “Stay With Me” mentre gradisco di più le spigolosità di “The Window”.

La sorpresa in positivo è la cartolina finale con tramonto sullo sfondo “Salt and Shadows”, pezzo con una notevole carica di pathos, dolcezza ed epicità che rimanda alle sperimentazioni liquide ed eteree di “Water” secondo volume di “Alchemy Index”.

Va detto che rispetto ai dischi passati “To Be Everywhere is to Be Nowhere” rischia di essere messo un po’ in ombra anche a causa della notevole vena creativa e qualitativa di molti dei lavori precedenti più che per demeriti propri . Ciò che rimane, nonostante qualche passaggio meno interessante del solito è comunque un disco che farà tutto sommato felice i fan, per gli altri il consiglio è quello di partire dal ricco catalogo precedente.

Carico i commenti... con calma