I Tiamat sono un gruppo di difficile catalogazione per qualsiasi appassionato di musica estrema: nati sul finire degli anni '80 nelle fredde terre svedesi, hanno iniziato il loro percorso artistico, al pari di molte altre band conterranee, dal death metal, sperimentando, con ogni album, sonorità sempre diverse. Il miglior lavoro, in questo senso, è senza dubbio "Wildhoney", pubblicato nel 1994, e additato da più parti come miglior lavoro della band.

In questo lavoro il gruppo propone un gothic metal molto vario, a tratti solare, a tratti cupo e claustrofobico, sempre e comunque molto evocativo. Curiosa la scelta di legare ogni traccia con la successiva: possiamo vedere quindi il lavoro come un'unica maestosa suite, in cui ogni "movimento" diventa indispensabile per l'economia globale del lavoro. L'unica pecca può essere rappresentata dall'alto numero di brani strumentali presenti (ben 4 su 10 canzoni), che rendono il lavoro alla fine un po' troppo breve.

L'album si apre con la title-track, un mini-strumentale di 53 secondi, che ci introduce, tra cinguettii di uccelli e il frinire delle cavallette, alla bellissima "Whatever That Hurts", maestoso gothic/doom, in cui, al ritornello cantato in growl e dominato dalle chitarre, si oppongongono le strofe con voce sussurrata dall'atmosfera psichedelica e oscura (mi ricorda molto la pinkfloydiana "Set the Controls for the Heart of the Sun"). Il testo (come tutti gli altri) è ermetico e poetico allo stesso tempo: "Cobweb sticks to molten years/ Cockroaches served with cream/ I wipe the silver bullet tears/ And with every tear a dream". "The AR" si sviluppa sulla falsariga della canzone precedente, aggiungendovi dei cori femminili e una dose di disperazione in più. Bello il break centrale, suonato solo dalla chitarra su un sottofondo di rumori elettronici. "25th Floor" è uno strumentale molto inquietante che sfocia in "Gaia", altra perla dell'album: su un pomposo sottofondo dominato dalle tastiere e dai cori, il cantante e chitarrista Johan Edlund (autore di quasi tutte le canzoni e di tutti i testi) declama una poesia dedicata alla Natura, in tutta la sua bellezza. L'assolo di pianoforte, seguito da quello di chitarra, non fanno altro che rendere ancora più solenne l'atmosfera del pezzo. "Visionaire" è un altro ottimo pezzo, ma risulta un brano meno ispirato di quelli che lo precedono. Un altro breve strumentale, "Kaleidoscope", ci introduce a "Do You Dream of Me?", ballata acustica molto sofferta che, si risolve in un lungo assolo di chitarra. Lo strumentale più lungo è "Planets", quasi un brano di ambient music, grazie alla sua atmosfera rilassata e densa di tastiere. Chiude la lunga (8 minuti) e solare "A Pocket Size Sun", che propone un duetto tra Johan Edlund e Birgit Zacher. Messe da parte le atmosfere disperate dei primi brani, questo brano ci culla con la sua melodia distensiva, quasi da ninna-nanna. Gli ultimi minuti alternano momenti più rilassati ad altri più movimentati, e l'apporto maggiore è dato dalla batteria.

Un album bello e molto particolare, nonostante gli oltre 10 anni passati dalla sua pubblicazione.

VOTO = 8

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