I Tiles non sono mai stati sufficientemente considerati nella scena prog, forse per via di una certa derivazione dai Rush. Eppure si tratta di una derivazione non così clamorosa e ci troviamo di fronte ad una grande band hard-progressive, matura fin dagli esordi nel sound e negli arrangiamenti.

Quest’anno è stato anche il loro! Un album in studio mancava da ben 8 anni, quel “Fly Paper” magari leggermente inferiore ai lavori precedenti ma comunque degno del loro nome. Un ritorno in grande, con un doppio cd, quasi a voler parzialmente recuperare tutto ciò che non è stato realizzato in 8 anni.

“Pretending 2 Run”, sesto lavoro in studio per i Tiles, è un lavoro che conferma tutti gli elementi che hanno caratterizzato la band ma ne aggiunge diversi altri oppure ne approfondisce alcuni trattati leggermente in passato; notevole è poi il cast di ospiti: Mike e Max Portnoy, Kim Mitchell, Mike Stern, Ian Anderson, Adam Holzman, Colin Edwin, Terry Brown… Già leggendolo, neanche ascoltando, diciamo “sì, è un grande album!”.

Gli ingredienti tipici della loro proposta che qui ritroviamo sono una spiccata componente hard rock, una più meno evidente componente virtuosistica che sfocia in articolati passaggi o in lunghi assoli, una facile concessione ai momenti acustici, spesso sfocianti nel folk e di jethrotulliana memoria, melodie potenti e vivaci, quasi mai oscure, marcate dalla voce brillante e solare di Paul Rarick, linee di basso sempre molto articolate che però si mantengono marcatamente rock senza mai davvero sfociare nella fusion. Però le sorprese sono diverse e mi accingo ad analizzare l’opera più a fondo come sempre. Il track by track, purtroppo o per fortuna, stavolta mi sembra necessario.

A sorprendere ci pensa già l’intro: “Pretending To Run” ha una sezione elettronica nella sua intro, dal sapore quasi anni ’80 ma modernizzata, prima di scaricare poi in un hard rock energico. E proprio un hard rock diretto ed energico è quello che caratterizza “Shelter In Place”, il brano più immediato ed essenziale del lotto. “Stonewall” è perfettamente in bilico fra hard rock e folk: ritornello energico molto Rush-style e parti acustiche lente e ben scandite condite da banjo, mandolino, influenze orientali, parti di oboe, arrangiamenti orchestrali talvolta intelligentemente mischiati con i sintetizzatori.

Dopo le belle fughe strumentali di “Voir Dire” invece “Drops of Rain” è il brano più orecchiabile e brillante del lotto, con la sua melodia brillante e i suoi accordi lineari e per nulla ostici; sinceramente non riesco a spiegarmi come un brano con una melodia così possa avere un titolo simile…

Poi c’è la lunga ed articolata “Taken By Surprise” che davvero ci coglie di sorpresa come da titolo: l’intro include effetti elettronici e suoni di piano elettrico affianco alle spigolose linee di basso, elementi poi ripetuti nell’outro, mentre la dura colonna portante include accompagnamenti all’organo hammond.

C’è anche spazio per il coro gregoriano di “Refugium”. Il primo disco si chiude con “Small Fire Burning”, un brano soft e piuttosto cupo, buono sì ma non scintillante, non proprio un riempitivo ma nemmeno una perla, semplicemente si fa ascoltare.

Il solo primo disco potrebbe bastare a farci parlare di un grande album, ma anche il secondo riserva diverse perle che regalano sorprese e non possono non essere considerate determinanti nel rendere grande il disco, sebbene qualche riempitivo e qualche gonfiamento qua e là vi sia.

Già le prime due tracce ne sono un chiaro esempio: “Midwinter è guidata dal flauto del sempreverde Ian Anderson (da sempre estimatore della band) mentre la energica e dinamica “Weightless” presenta un assolo di sassofono. “Friend or Foe” invece è già meno sorprendente e un tantino trascurabile, dalla melodia volutamente un po’ spenta in bilico fra parti acustiche ed elettriche; “Battle Weary” è invece decisamente più riuscita nell’intento di suonare cupa e dimessa, grazie anche all’accompagnamento di una appena udibile tromba.

Spazio anche per un altro coro gregoriano, quello di “Meditatio”, mentre “Other Arrangements” è un interludio elettronico/computerizzato più che mai insolito, che sembra scritto in contemporanea e su un tavolo condiviso assieme alle Nomacs Instrumentals dei Dream Theater. “The Disappearing Floor” ha invece frenetiche fughe strumentali.

Merita di essere messo in evidenza il brano “Fait Accompli”: è principalmente acustico e molto orecchiabile ma racchiude perfettamente diversi elementi già sentiti, e tutti quanti sembrano rispondere bene alle esigenze di orecchiabilità del brano, senza risultare invadenti, lasciando alla melodia la sua naturale leggerezza; ottimo l’uso del mandolino e del connubio synth+arrangiamenti orchestrali.

I due reprise di “Pretending to Run” sono piuttosto riempitivi e superflui, in mezzo ci sono ancora fughe strumentali, quelle della semistrumentale “Uneasy Truce”, che include anche un bel solo di violino.

Il finale è ancora una volta meritevole di attenzione: prima un altro particolare intermezzo elettronico, “The View From Here”, poi il lento folk orchestrale di “Backsliding”, guidata dal mandolino e accompagnata da oboe e arrangiamenti orchestrali.

Possiamo dire che sono stati 8 anni di riflessione davvero ben spesi, i Tiles sono tornati con un gran disco, ricco e variegato come mai prima d’ora, che può tranquillamente competere per il titolo di miglior album della loro discografia nonché una delle uscite più brillanti di questo 2016. Prima di stilare le vostre classifiche e rendiconti di fine anno, se non l’avete già ascoltato, fatelo!

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