Irrispettosamente trattato male, nonostante un buon successo al box-office, il remake burtoniano del vecchio Willie Wonka di Mel Stuart del 1971 è un signor film, forse uno dei più belli del Burton post-2003 (cioè dopo il capolavoro "Big Fish - Le storie di una vita incredibile")- Inutile ricordare che tutto parte dall'opera letteraria di Roald Dahl edita nel 1964.
"La fabbrica di cioccolato" è, a distanza di anni va detto, migliore del film degli anni '70, che aveva in Gene Wilder l'acqua della vita, ma soffriva di una prolissità fin troppo evidente, di canzoncine sciape e poco coinvolgenti e, su tutto, di una regia piatta e anonima, prevedibilmente televisiva che, fortunatamente, Tim Burton non ha mai avuto, tanto che questo remake è ben più costruito in ogni singola sequenza, ben più ambizioso e, sicuramente, ben più accurato nei dettagli e nei movimenti di camera (i primi minuti in cui si racconta la genesi della popolarissima fabbrica di cioccolato, con l'excursus del sultano che si fece costruire da Willy Wonka in persona un palazzo interamente "cioccolatoso", è uno spettacolo, il film del 1971 una roba così se la sognava).
Tim Burton si, e ci, immerge in un mondo, al solito, magico e coloratissimo, anche laddove prevalgono i colori invernali, e non ha paura di far attendere lo spettatore. Willy Wonka compare in scena dopo un abbondante mezz'oretta. Ma sa dosare, con garbo, i suoi personaggi, e lascia ampio spazio anche al mondo al di là di Wonka: i cinque pargoletti pestiferi (tranne uno, il vincitore) che si aggiudicano i biglietti d'oro per assistere al tour della fabbrica (con qualche pennellata velenosa sull'avidità dei ricchi e la bontà dei meno fortunati), i rispettivi parenti, siano padri madri o nonni, e, con l'aiuto della tecnologia moltiplica a piacimento l'attore indiano Deep Roy facendogli interpretare tutti gli Umpa Lumpa.
Il viaggio nella fabbrica è delizioso e divertentissimo, accompagnato dalle musiche del compagno di mille avventure burtoniane Danny Elfman, e contiene alcune sequenze da mandarsi a memoria. Su tutte da citare la fine della petulante Veruca Salt assalita da alcuni inquietanti scoiattoli e il contrappasso che spetta al borioso Mike Teavee. Citazionista sfrenato, Burton non si fa mancare nulla, e così ecco finire nel suo caleidoscopico calderone "2001: Odissea nello spazio" e "Psycho". Oltre a raccontarci alcuni passaggi dell'infanzia di Willy Wonka, col mefistofelico padre dentista Christopher Lee (e chi, altrimenti?) in alcuni flashback totalmente riusciti.
Bhè, che dire, Johnny Depp. Va bene: lui è bravissimo (lo è quasi sempre), qui, e con Burton in generale, lo è in particolare, e, per sua precisa volontà, si tiene il più lontano possibile da ciò che fu Gene Wilder, anzi, si rifà, nei modi e negli atteggiamenti, a Michael Jackson (forse anche la Neverland jacksoniana era una specie di fabbrica di cioccolato, questioni giudiziarie a parte), anche se il buon Wilder mica l'ha presa tanto bene. Solo pochi mesi prima dell'uscita del film, nel 2005, Wilder dichiarò: "Sono solo alcune persone sedute a pensare 'Come possiamo fare più soldi?'. Perché altrimenti dovresti rifare Willy Wonka? Non vedo il senso di tornare indietro e rifare tutto da capo". Rispose Depp, "Quando non hanno mai fatto nulla per soldi? Nessuno ha mai girato un film nella storia del cinema in cui non si aspetta un ritorno sul proprio investimento". Come dargli torto. A Depp intendo.
Scenografie di altissimo livello (diciamo futuristiche), costumi dell'italiana Gabriella Pescucci da applausi (il completino di Willy Wonka è kitsch al punto giusto) e un ritmo indiavolato dall'inizio fino alla fine, con una visionarietà totale burtoniana sotto tutti i punti di vista (la scena dell'ascensore volante è uno spasso). Facendola corta (si fa per dire), un grandissimo film.
Carico i commenti... con calma