Questa è veramente difficile. Come è difficile parlare dell'Amore, della Morte, della Bellezza. Potresti scriverne per centinaia di pagine senza riuscire a spiegare nulla. Oppure scegliere il silenzio. Silenzio che spiega meglio di migliaia di inutili pensieri e parole quello che qualcuno ti sta comunicando, in questo caso in parole e musica. A volte l'Arte non ha bisogno d'altro. E poi dopo, magari, spegnere lo stereo per sempre. Cos'altro varrebbe la pena ascoltare?

Sono ormai quasi trent'anni che Timothy James Hardin non è più di questa terra. Per una metà abbondante dei trentanove nei quali ne ha respirato l'aria, il demone dell'infelicità dev'essergli stato fedele compagno di viaggio. Storia già vista e sentita: tanto il suo finissimo talento, in grado di mettere assieme country, blues e folk, venne apprezzato da critici e più illustri colleghi (Dylan, Fred Neil e John Sebastian, tra gli altri) con cui condivise la meravigliosa stagione del Greenwich Village, quanto poco queste doti gli vennero riconosciute dal grande pubblico che mai volle decretargli il successo. O meglio: furono altri - per tutti, Rod Stewart - che portarono alcune delle sue più belle canzoni ad ottenere una fama planetaria. E così l'animo fragile di Tim conobbe il dolore, l'insicurezza e l'isolamento. E siccome abbiamo detto trattarsi di storia già vista, l'alcool e l'eroina si presero la cura di lenire il suo male di vivere. Per poco.

Sebbene sia antecedente di dodici anni alla fatale overdose e nel mezzo ci sia stato spazio per altri cinque album, alcuni neanche disprezzabili, il testamento artistico di Tim Hardin sta tutto in questo disco dal vivo. Registrato nel 1968 alla newyorkese Town Hall con un gruppo di jazzisti di assoluto valore, "3 - Live in concert" è un capolavoro senza tempo in cui l'artista si giova della dimensione live per mettere a nudo tutto sé stesso. E quelle stesse canzoni che nei suoi due dischi precedenti - per carità, sono entrambi bellissimi - a volte soffrivano per arrangiamenti un po' troppo leccati o che, specie nel primo, indulgevano troppo sul canone di un country-folk "facile", in questa nuova veste jazzy brillano di una luce soffusa ed intima che rende il miglior servizio possibile all'interpretazione malinconica e tormentata del loser dell'Oregon. Brani già di per sé straordinari come "The lady came from Baltimore", "If I were a carpenter", "Reason to believe", "Misty roses", "Don't make promises", "Red balloon", "Tribute to Hank Williams" si librano pertanto altissimi grazie al miracoloso blend in cui, complice una misurata atmosfera jazz di batterie spazzolate, pianoforti in punta di dita, chitarre pizzicate e delicati vibrafoni, la ballata folk, il country e il blues si uniscono per mezzo di un pathos interpretativo che raggiunge le più alte vette della canzone d'autore di ogni tempo. E poi, quella canzone, "Lenny's tune" - che Nico riprenderà nel suo primo solista - dedicata all'amico scomparso Lenny Bruce. Sette minuti di canto liturgico in un atmosfera da brividi. Se riuscite ad ascoltare questa canzone senza commuovervi, non abbiamo proprio più nulla da dirci.

Ma l'ho detto all'inizio, le parole in questo caso non dovrebbero servire. Basta il cuore. Se voleste avere nella discografia non più di cinque dischi dal vivo, fate che "3 - Live in concert" sia uno di questi

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