Questi sono i dischi che mi piacciono!, e a chiunque conosca Tim Hecker faccio un appello disperato: ditemi tutti gli autori che combinano musica del genere che do mano al portafogli e mi rovino.
Canadese, Tim Hecker approda alle gelide lande dell'Islanda e confeziona il suo sesto album, riprocessando e contaminando le liturgie d'organo a canne di Ben Frost (australiano, trapiantato in Islanda, altro autore con la A maiuscola in ambito di ambient/avanguardia), frutto di una sessione di registrazioni compiute in una chiesa di Reykjavik nel luglio del 2010: miracoloso connubio fra sacro e profano, potremmo dire, ma in realtà siamo innanzi a quelle opere (con la O maiuscola) di musica contemporanea che, a prescindere dal sacro e dal profano, intendono semplicemente tratteggiare paesaggi interiori di una vastità senza confini.
Fra Fennesz e Sigur Ros, Schulze ed Eluvium, “Ravedeath, 1972”, uscito nei primi mesi del 2011, è un capolavoro di arte astratta, un'elettronica ambientale che non teme di confrontarsi con droni e dissonanze, e in questo fa molto l'armamentario dialettico a disposizione di Hecker, non solo abile dietro all'immancabile laptop, ma anche capace di destreggiarsi ai sintetizzatori, alle tastiere, al piano, alla chitarra elettrica, cosicché il risultato è una sintesi sonora che sa essere a tratti mistica (le sequenze di organo destrutturate à la “Irrlicht”), a tratti poetica (i fraseggi di pianoforte che stemperano la tensione in sognanti partiture da camera), a tratti scossa da un irrequieto rumorismo (gli arpeggi distorti che montano rasentando il post-rock più emozionante, i feedback di chitarra che macchiano le aperture celestiali evocanti la forza incontenibili della natura come la stasi della Morte).
La Morte. Il tema della Morte pervade l'intera opera, senza declassare l'operazione ai bassi ranghi di uno sciocco dark-ambient per pivelli, bensì elevando a mistico e sacrale un impianto sonoro che scaturisce dall'intimità più profonda del suo autore. Il segreto sta nella fusione fra Io e mondo circostante, una continuità fra Spirito e Natura, fra stati d'animo ed elementi atmosferici, fra Vita e Morte, un incontro che assume le forme di un melting-pot dinamico ed in continua evoluzione che vede in un paesaggio caratteristico come quello dell'Islanda (la terra del ghiaccio e del fuoco) lo specchio ideale per individuare ed estrarre fuori dal suo involucro la fremente e sfaccettata materia emotiva di Hecker: una materia gelida ed al tempo stesso incandescente, fragile ed impetuosa, placida ed irrequieta, contemplativa e dedita all'azione in pari modo. Il tutto dipinto con tratto brusco e pesante, amore per i contrasti, con una capacità descrittiva degna di un Fennesz (anche se Hecker, probabilmente, perde ai punti con l'austriaco in quanto ad eleganza e raffinatezza nello scolpire i suoni): suoni confusi, ruvidi ed al contempo nebbiosi, ma anche potenti ed incisivi, come se l'irrequietudine, sentimento da cui scaturisce il tutto, fosse superata da una coraggiosa determinazione nel prendere il toro per le corna.
Le parole, i concetti che esse descrivono, del resto, impoveriscono la realtà, tanto più che di per sé è estremamente difficile parlare di musica di questo tipo. O forse troppo facile e troppo banale. Glitch, ambient, noise, musica cinematica, grandi emozioni: vuote parole, no?, che potrebbero descrivere qualsiasi artista dedito ad analoghe sonorità. Forse sarebbe meglio predisporre una serie di immagini, o, meglio ancora, linkare e rimandare direttamente all'ascolto di questa musica così difficilmente trasferibile su due righe di word.
Eppure bisogna parlarne, anche se non è possibile. Si potrebbe redarre una sterile trattazione di dettagli tecnici, che però solo gli addetti ai lavori potrebbero capire. Ma gli altri? E proprio gli altri dovrebbero essere invece quelli più interessati, poiché la musica di Hecker è emozione allo stato puro e potrebbe esser gradita proprio da coloro che fuggono la cerebralità tipica dell'elettronica.
Poiché la musica di Hecker procede per immagini, anzi, è immagini trasformate in musica, in un contesto in cui i suoni si spostano lentamente come mastodontici lastroni di ghiaccio alla deriva, in un moto perpetuo fatto di emozioni che si inarcano e accavallano: un saliscendi che a tratti assume le sembianze di un paesaggio incantato di fronte al quale l'unico atteggiamento da assumere è quello della trasognata contemplazione, in altri invece ti assale e ti trascina via in turbini e correnti vorticose, densi vapori, eruzioni vulcaniche, crescendo-non crescendo in cui la tensione, implosa fino ad un istante prima in un ribollire pregno di energia, sembra finalmente liberarsi in un'ascesa verso il cielo.
Silenzio e fruscii, le frasi visionarie di un pianoforte apocalittico e il catrame degli arpeggi distorti della chitarra, modulazioni e manipolazioni che rendono ancora più astratta l'arte di Hecker, i cui suoni si stagliano nell'aria come se vivessero di una propria eternità, in cui il principio e la fine si perdono all'orizzonte di una gelida distesa di acqua, ricca di increspature, che lentamente si muove e procede, trasmettendo comunque un senso di smarrimento che fa gradualmente perdere le connotazioni spaziali e temporali in cui ci stiamo muovendo.
Come galleggiare su una irrequieta distesa d'acqua, inermi, aggrappati ad un tronco d'albero, con lo sguardo perso in un infinito cielo grigio, e la tempesta che presto ci sconvolgerà l'esistenza.
5 stelle. Secche.
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