1999, significa un album. 1999 significa un anno di rottura. 1999 significa l’inizio della fine.
Le parole che possiamo spendere riguardo a quest’album, triste effige di un periodo travagliato, sono parole amare e disordinate. Come dopo ogni divorzio, dopo la fine di ogni storia, quelle che si spendono sono parole confuse figlie di un momento di minor lucidità. Il processo di attribuzione delle cause e delle colpe è una distrazione inutile, non ci sono ne santi, ne vincitori, ne colpevoli, si è, in ogni caso, solamente perdenti. Si sono persi gli anni, il lavoro fatto insieme, la storia in comune, il desiderio di non essere, come gli altri, destinati a perire.
I Timoria con il loro miglior lavoro “Viaggio senza vento” erano fino a quell’anno innocuo considerati come una delle più dignitose rappresentazioni del rock italiano. Più noto alle cronache del giorno d’oggi, ma non più per amor delle note, sul finire dello scorso decennio, Francesco Renga, voce riconoscibile, potente, carica e adatta al rock asciutto dei Timoria, decide di lasciare il gruppo, in seguito alle divergenze e ai dissapori con la mente, il leader celato del gruppo, Omar Pedrini. I seguaci dei Timoria, un drappello di appassionati ristretto ma solido, videro infrangersi una squadra, che da sempre aveva dato l’idea e predicato un viaggio sulla stessa “nave”; un gruppo ancora in buona forma, come dimostrava l’ultimo lavoro “2020 speedball”.
Le mie parole a riguardo sono parole intrise di adolescenza che svilisce, di tristezza personale, di confusione nello scrivere di un divorzio, di una vicenda altrui. Di questo primo album dopo Renga (o, forse, il primo da solista per Pedrini?) potrei dire molte cose confuse, contrastanti e per questo motivo, credo sia meglio affidare l’esposizione del contraddittorio ad un limpido dialogo tra me stesso.
ME: Ciao Stesso, quanto tempo che non ci si vede, che fai qui?
STESSO: Passavo a prendermi un panino, oggi non ho proprio tempo di cenare… stasera vado alla Brixia Arena a sentire i Timoria!
ME: A sentire i Timoria?!? Ma, dici davvero? Guarda che quelli senza Renga sono finiti, ho sentito l’ultimo disco, 1999, una roba indecorosa dal punto di vista vocale. Pedrini era ed è un preciso chitarrista, ma con quella vocina tremula e sgolata! Anche l’altra voce, Sasha, non mi convince troppo! Dai, si serio e spendi meglio i tuoi quattrini!
STESSO: Primo, chi ti ha chiesto un parere. Secondo, ho ascoltato il disco e non è male. Terzo, la "dipartita" di Renga lascia un'eredità pesante, certo, ma Pedrini, senza Renga, ha cambiato modo di scrivere, di esprimersi, orientando sempre più la sua opera verso la tradizione Beat italiana, verso un canto corale, verso numerosi piacevoli falsetti. E’ oggi un rock, quello dei Timoria, più vario e melodico. Certo, Omar, lascia parecchi seguaci perplessi davanti a certe inconsuete interpretazioni, ma senza dubbio ha il merito di aver proseguito un percorso in parte già iniziato, perfezionandolo e ampliandolo. Un percorso ambizioso quello che vuole Pedrini eclettico artista, un percorso tra arte, reading letterari, etica beat e rock italiano. Inoltre ha saputo anche rivelarsi voce adatta a questo nuovo stile, voce più sofferta, più espressiva.
ME: Benissimo, allora, ricapitolando… Pedrini è oggi, cantante, autore, polistrumentista, regista e produttore (anche di vini, mi dicono..) e non lascia che le biriciole ai Timoria: un gruppo che scompare all’ombra del leader, che diventa un generico gruppo di supporto, preciso e anonimo. Secondo me, in quell’album è palpabile il disagio nel resto del gruppo per le scelte di Omar! Inoltre, definire eclettico un autore solo perché rinchiude il gruppo nell’atelier di Marco Lodola e coinvolge qualche grande nome nella sua restaurazione hippies, è quantomeno bislacco! Poi dimmi, noi in Italia avremmo anche una tradizione Beat?
STESSO: Certo, partendo dalle voci, l’album suona triste ed angosciato; voci e cori esprimono un vero senso di soffocata disillusione, di tramonto, di fragilità, di poca speranza nelle prorpie possibilità, ma questo è il motivo per cui risulta un lavoro compatto e dal carattere riconoscibile.
ME: Francamente, non so che dirti, dopo un paio di ascolti ho una gran confusione in testa, la sensazione è di scemare in una galassia anestetica, fuori dal tempo, sull’incrocio. Ragazzi tristi degli anni ’70 che camminano verso il cyber spazio, incontrano, sospesi in aria, personaggi del secolo scorso, poeti e cantori della strada, menestrelli randagi, intellettuali disillusi, ma anche ciarlatani del nostro tempo, figure modaiole, maestri di vita metropolitana e draghi dormienti. Forse avrai ragione tu, caro Stesso, però io so solo che prima mi piacevano ed adesso non mi piacciono più, non sarà scientifico ma la musica è anche pelle, impatto, nervo!
STESSO: Ma dai, alcuni brani non sono per niente male e non hanno nulla da invidiare alla passata produzione: “Deserto” apre il disco alla ricerca di una risposta, è una canzone di dubbio, di ripensamento, non banale, il sound è quello DOC, le chitarre sono pesanti come il contro canto del gruppo. “Ora e per sempre”, è la canzone Pop che Omar aveva nelle corde da un po’ e si fa ascoltare con gusto. “E’ così facile”, potrebbe essere un riflesso autobiografico del gruppo ed è sicuramente un omaggio alla produzione Beat italiana. “Un volo splendido” è un rock plastico, intriso di suoni britannici che tuttavia non si fa dispiacere per il buon crescendo strumentale. Ho trovato particolare ed evidente anche “L’amore è un drago dormiente” le cui liriche, affidate ad Aldo Busi, rivelano un momento contemplativo, verso il mistico e l’etnico.
ME: La tradizione Beat è solo nella tua mente, il mistico e l’etnico, propinati a quella maniera, sono roba da negozio di souvenir, “Ora e per sempre”, è la canzone Pop che Omar aveva nelle corde da un po’ e che segna un definitivo distacco dalla precedente produzione e dalla precedente formazione; formazione che pur essendo presente all’80% sembra già riposare in pace. In più, gli elementi pregnanti di questo lavoro sono, nei primi quattro brani, già messi tutti sul piatto, i pezzi che seguono ricalcheranno gli stessi stilemi e le medesime tematiche senza la pur minima variazione o sfumatura.
STESSO: Bhè, trascuri la pregevole “Genova”, dimostrazione del buon cantautorato che puo’ uscire dalla penna di Pedrini. Canzone d’atmosfera, di paesaggio, di un paesaggio invernale, fredda e straziante cornice per il cuore degli amanti all’addio. Vale il prezzo dell’intero album.
ME: Invece, non sono proprio riuscito a sorvolare la imbarazzante “Il maestro”, tentativo di RAPcore, sempre uguale e senza una dimensione all’interno di un disco dalla natura completamente differente. Ma Pedrini è da un po’ che ci insiste, vicende simili sono appartenute anche a un passato più lontano.
STESSO: E’ necessario fare un apprezzamento a Pedrini, artista ambizioso a tutto campo! L’artista deve avere un poco di ambizione! Serve a lui per fare le cose col dovuto riguardo, con la passione, l’intensità e la perizia che sono caratteristiche proprie anche di questo album. Tuttavia le idee non possono sempre essere quelle buone e giuste.
ME: Ah! Tu fa quel che credi, spendi pure i tuoi soldi per i loro dischi e i loro concerti, poi mi dirai... Ci scommetto, un giorno o l’altro li sentirai cantare… “le tue mutandine che mi fanno morire, pane, burro e medicine...” e forse non saranno le cose peggiori...
STESSO: Lo farò, anzi, ora è meglio ch’io vada, non vorrei perdermi questo evento, reso ancora più appetitoso da questa sana discussione. Me, sei sempre un punto di riferimento!
ME: Anche per Me vale lo Stesso, fammi sapere, mi raccomando!
Alla fine, ve lo dico IO, quel concerto fu anche bello. I nostri due chiacchieroni da bar, mi hanno aiutato a esternare, se non tutte, almeno le perplessità salienti riguardo questo lavoro. Disco, che infine, risulta un po’ plastico ma con un carattere definito e pone le basi per i lavori a seguire, come El Topo Grand Hotel e Un Aldo Qualunque sul Treno Magico, ricchi delle suggestioni etniche/mistiche e della ricerca musicale anni ’70, perfettamente rintracciabili nei brani di 1999. Scompaiono i Timoria, rimane Omar Pedrini, un ragazzo che nel 1999 ha le giuste aspirazioni per fare qualcosa di potenzialmente innovativo ma che il tempo ci dirà percorrere altri e più riparati sentieri.
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