Quando si arriva stremati al termine di "I'm Not There", ultima fatica di Todd Haynes ("Velvet Goldmine", "Far From Heaven"), ci si chiede fin dove sia possibile subire le decisioni rischiose nell'arte e nel prezzo del biglietto al cinema senza mandare il cassiere a fare in culo.

Sebbene sia un film sulla figura di Bob Dylan, "I'm Not There" ha lo stesso impatto straziante di uno di quei dischi così sperimentali da risultare francamente inascoltabili.

Qualcuno potrebbe tranquillamente affermare che chi scrive - o chi ne apprezza la lettura dotandosi di spirito limitato - sia comunque auto-inserito per scelta masochista nel ben chiaro contesto socio-ideologico-progressista fatto di continue ricerche di sè stessi, auto-distruzione e rinnovamento a cui appartiene lo stesso regista, e di conseguenza per istinto di conservazione si merita come destino un tale dolore nel culo.

Quelli che restano per esclusione - in maggioranza inseriti nella folta schiera di detrattori di questa pagina - diranno che (sotto un profilo più squisitamente conservatore) semplicemente non siamo altro che una manica di buffoni.

E come buffoni facciamo ridere tutti e abbiamo eletto a sport nazionale la risata degli uni sugli altri.

Todd Haynes è un'intellettuale, un tipo senza ombra di dubbio abbastanza cool, ma anche un tipo da Hollywood (non a caso c'è pure Richard Gere). E' un'attivista gay, un regista che rispetta per davvero l'arte amatoriale ma allo stesso tempo uno che si presta come voce di una generazione (vedi il contesto ideologico di cui sopra). E pure questo pare così sperimentale da sembrare quasi una presa per il culo.

In "I'm Not There" la vita e il genio di Bob Dylan vengono rappresentati da sei attori diversi: un guappo nero di undici anni che si chiama Woody Guthrie, un prete con una faccia e i modi veramente da prete (Christian Bale), un Giuda psicopatico e drogato (e quindi l'unico verso il quale venga da provare un po' di tenerezza - Cate Blanchett, una donna), Billy The Kid (Richard Gere), un attore arrogante (Heath Ledger) e lo spirito tormentato di Arthur Rimbaud (cercatevi il nome).

Qualcosa alla cui proiezione ho provato un'irresistibile sensazione di noia apocalittica da dispensare a voi in 2000 caratteri, tenacemente incensata da mezzo mondo divertito.

Un'opera d'arte perfetta ne richiede circa 1800 se si decide di utilizzare come mezzo d'espressione la scrittura, altrimenti si cade nel calderone della corrente avanguardista e si rischia di confondere persino la propria natura o la l'altrui risata.

A seconda di cosa vi riesca facile gradire, o di cosa pensiate di me, togliete pure o sopportate la parte di 200 caratteri in cui faccio il buffone.

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