"Cry Mercy Judge" apre in controtempo e ti va di traverso, un fremito New Wave pulsante ti colpisce come un'esplosione che squarcia in due un palazzo non appena la testina trova qualche nota.

Tom Verlaine inizia così il suo disco blu, si era discusso di lui, lo si era dato per perso fra le gallerie del Moma, per vagabondo a Queens, per ricercato a Staten Island, per finto turista a Manhattan e lui che fa? Lui si fa ritrovare al suo posto, in piedi fermo di fronte ad un microfono, maglia nera, Fender a tracolla, espressione distante e sicura. Ci fosse spazio per un dubbio, un attimo di incertezza, si manifestasse talvolta un tremore della sua mano mentre accarezza con il plettro le sei corde, sicuro nessun disco di Tom Verlaine avrebbe mai visto la luce. Lui, tanto esile e fragile, morirebbe schiacciato.

Lui, silenzioso signore delle metropoli a cavallo fra il grigio e l'arcobaleno, non ha mai manifestato un accenno di esitazione, cammina in scarpe comode, si veste malissimo, suona da dio. E' una produzione discografica, la sua, che riempie gli anni 80 con gemme nascoste dietro ai palcoscenici, punto di riferimento delle masse di seconda o terza fila: l'ultima è "Flash Light", quinto lavoro solista, quintessenza della sua musica inquieta e squillante, buia e piena di lampi. Era il 1987. "Cover", tre anni prima era venuto a scombussolare quel tanto che basta gli animi dei suoi seguaci, nè tanti nè pochi, ed ora Tom Verlaine torna dalle sue donne, una Jaguar ed una Jazzmaster, come farebbe un vecchio amante che ripercorre certe strade con le lacrime agli occhi. Ce ne stanno tanti di disturbi nella mente di un uomo nell'arco di tre anni, nella sua si accumulano a strati. Dopo le divagazioni memorabili del suo predecessore, "Flash Light" ripropone un Tom Verlaine classico, maturo uomo del Rock che si ricongiunge con le proprie passioni ("A Town Called Walker", "Annie's Telling Me"), anima scossa in costante duetto con la propria chitarra urlante, quasi fosse lei a suonare Tom Verlaine, magro e geniale tessitore di melodie disturbate: crederci è facile, basta dare un ascolto a "Song" di sera, o a "Bomb" di notte, dove la voce e la Fender seguono linee che paiono indipendenti, camminano lungo sentieri paralleli mai troppo distanti per poi incontrarsi di tanto in tanto e scambiarsi un saluto. In mezzo a queste due gemme essenziali, l'alchimista del Punk Rock si ritaglia uno spazio di beata e dolorosa solitudine e partorisce la straziante, soffusa "The Scientist Writes A Letter" pregna di amor perso, unico vero richiamo all'eccellente "Cover".

La chitarra pesa sulle gambe accavallate e richiama un'attenzione che rimbalza fra il manico, la bottiglia mezza vuota a sinistra, il vetro gelido della finestra chiusa a destra; "suonami, perdio!" sembra volergli dire in mezzo al mare di sintetizzatori. Al centro della stanza, un Verlaine più scienziato che musicista sta seduto alla sua scrivania, scrive alla sua Julia, e talvolta dà retta a quella chitarra parlante. Nasconsta dietro al quadruplicato facciale in copertina c'è l'anima di un artista dissanguato, talvolta più cantautore disilluso; forse mai nella sua carriera solista come in "Flash Light" si sono trovati concentrati tutti gli elementi che sono prova della sua grandezza. "Say A Prayer" vede riaffacciarsi quel lato a tratti giocoso nelle melodie che già era emerso in passato ("Let Go To The Mansion", per esempio), mentre "The Funniest Thing" e soprattutto "At 4 A.M." è bello immaginarsele uscire dallo stereo di Mark Knopfler nel suo salotto londinese (ai quei tempi, più newyorkese), con questi che chiude gli occhi ed accenna un sorriso di compiacimento per quelle linee di chitarra così simili a ciò che lui è solito insegnare, lui che come Tom Verlaine è riuscito a trovare quell'equilibrio perfetto tra corde e piacere.

E con "One Time at Sundown" si capisce quanto Tom Verlaine abbia imparato bene.

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