Fa il verso a coloro che ormai lo ritengono poco più che un pensionato di lusso.

Tony Iommi, leggendario chitarrista dei Black Sabbath, all'inizio del nuovo millennio (siamo ad ottobre del 2000), dopo una carriera ultratrentennale, mette sul mercato il suo primo vero album solista: ''Iommi''. Artista freddo e distaccato solo in apparenza, l'axe-man di Birmingham ha invece sempre adorato sbalordire i propri seguaci a colpi di un talento compositivo e di un estro esecutivo irrefrenabili, fin dai suoi primi cruciali passi, quando militava nella formazione embrionale dei memorabili Jethro Tull. In mezzo alle tante leggende metropolitane che si sono diffuse sul suo conto, ce n'è una particolarmente bizzarra e significativa: agli albori della carriera con il Sabba Nero circolava voce che Tony, pur di riempire di tormento il suo funereo riffing, si fosse tagliato i polpastrelli della mano tanto da far risultare così straordinario e drammaticamente Heavy il suo sound. Una diceria alterata, è chiaro, nata in verità a causa di un fastidioso contrattempo capitato al buon Tony allorchè si guadagnava ancora da vivere come operaio a tempo pieno, concedendosi ai Black Sabbath solo nei fine settimana. Visto che, lavorando in fabbrica, perse un paio di falangi delle dita di una mano, si vide costretto a ricorrere ad una protesi, che, ad oggi, può essere tranquillamente considerata elemento decisivo nella costruzione dell'avvolgente, claustrofobico stile griffato Tony Iommi. E allora, figuriamoci se uno così, dopo aver donato linfa vitale al mondo dell'Hard Rock ed esser diventato uno dei personaggi più illustri della scena, può lasciarsi demoralizzare da una reunion con Ozzy messa in piedi e naufragata nel giro di pochi mesi...

Se il suo compare Geezer Butler in precedenza aveva già ampiamente dimostrato di saper sconquassare le orecchie a parecchia gente (con il progetto G/Z/R), Tony non vuole essere da meno, allestendo un calderone vocale di prim'ordine, un battaglione di singer tra i più affermati che hanno sempre malcelato il loro folle amore nei confronti di Iommi e dei Sabbath. Devoti estimatori che hanno accettato du buon grado di far parte della partita, immersi negli excursus musicali che sanno tanto di dolce passato, in un corollario di brani incantevoli e dal diabolico appeal; è il caso dell'opener ''Laughting Man (In The Devil Mask)'', con Henry Rollins (Black Flag) dietro il microfono per una song agitata e dirompente. C'è la spettacolare vena Doom di ''Time Is Mine'' realizzata con un Phil Anselmo ispirato, tragico e rabbioso, c'è Serj Tankian dei SOAD che segna indelebilmente ''Patterns'', per me la migliore del lotto. Ma è alla traccia nove che ai nostalgici verranno le lacrime agli occhi: i Black Sabbath originali, quasi al completo (manca solo Geezer) presentano ''Who's Fooling Who?'' (introdotta dalla classica campana a morto) che non farà certo gridare al miracolo, è vero, ma che ha il pregio di farci sentire di nuovo la voce di Ozzy (che non c'è più...o meglio ancora...non c'è mai stata) su dei riff nuovi di Iommi. Fa parte della festa anche il grande Brian May che spiana la strada, in ''Goodbye Lament'', all'ugola di Dave Grohl, come del resto ci sono le interessanti prove di Billy Idol e di Ian Astbury dei The Cult in ''Into The Wild'' e ''Flame On''. Un pò più sottotono, invece, si fanno spazio Skin con ''Meet'' e Billy Corgan con ''Black Oblivion'' (i quali, in tutta onestà, appaiono abbastanza fuori contesto) e soprattutto Pete Steele che nella sua ''Just Say No To Love'' appare poco convincente, come se fosse intimorito dall'incontro col suo mito di sempre.

Pensionato di lusso quindi? Secca e imponente sembra essere la risposta di Tony. Noi non possiamo far altro che prenderne atto con sommo gaudio.

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