In un caleidoscopio di emozioni e sentimenti, primari e non, affonda la propria essenza questo esordio dei Tool, anno di grazia 1992. Parole e musica si intrecciano e si fondono apposta per trasmettere alle sinapsi una tangibile esperienza sonora in cui fanno da padrone rancore, disperazione, fastidio, rabbia e così via, senza una vera possibiltà di redenzione. La voce di Maynard James Keenan sembra far parlare le ferite e le cicatrici di ognuno di noi, come intenta a risalire dai recessi di un pozzo nero alla ricerca di una luce che in qualche dimensione deve per forza esistere. La musica è metal alla base, ma spesso i tempi si dilatano con dolore e i suoni si stratificano nel tentativo riuscito, eccetto forse che nella title-track (ma siamo di fronte sempre ad un esordio), di dare un volto definito a quello che può essere chiamato art-metal. Le parole colpiscono l'ascoltatore come macigni sulla coscienza con il contributo hardcore di Henry Rollins in "Bottom" ("il mio piscio ed i miei gemiti sono il carburante che incendia la mia testa, sono morto dentro"), affrontano temi difficili come la violenza sui minori nella forse autobiografica "Prison Sex" ("avevo le mani legate, la testa bassa, gli occhi chiusi e la gola spalancata") e annegano nell'oceano dell'amore malato in "Sober", il miglior brano del disco ("perchè non possiamo bere per sempre?"). Di fatto a partire da questo album vengono gettate le basi di quella evoluzione sonora che, attraverso pochi ma complessissimi lavori, porterà il gruppo di Los Angeles a diventare il portabandiera dell'alternative metal degli anni novanta e duemila, prima di perdersi attraverso una serie di beghe legali con la casa discografica e di progetti paralleli musicali, gli elettro-industrial Puscifer su tutti, e non musicali (il cantante si è dato con successo anche alla produzione del vino). Nel frattempo da anni aleggia la leggenda dell'esistenza di un nuovo lavoro, mai realmente confermato, e, beffardamente, la schiera di appassionati estimatori lancia in coro le stesse urla di invocazione che il reverendo Maynard ha tanto disprezzato nella conclusiva traccia di questo esordio ("Disgustipated").

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