Il disco è l'ottavo della loro discografia, l'anno di uscita il 1992. Alla batteria siede per l'ultima volta il compianto Jeff Porcaro... quando l'album esce sul mercato lui se n'è sciaguratamente appena andato da questo mondo: un attacco di cuore (indotto dall'abuso di cocaina) lo stronca a soli trentotto anni.

I Toto rimangono quindi solo in tre ad affrontare (e superare!) il momento più buio di carriera. In quella fase erano infatti anche privi del cantante solista, dopo la cacciata a pedate nel sedere del vacuo Jean Michael Byron, un mulattone che aveva li aveva lì per lì stregati col suo talento, ma che si era presto rivelato inaffidabile ed opportunista, interessato solo alla propria carriera. Il disco è quindi suonato da un quartetto, ed anche le consuete ospitate sono al minimo storico... non era mai successo e non risuccederà.

Il chitarrista Steve Lukather si annette dunque il ruolo di voce solista per tutto l'album; insieme alle ballate, già abitualmente di sua competenza, stavolta interpreta anche i pezzi rock, oltretutto senza neanche il contributo del tastierista David Paich, che un paio di episodi a disco se li era fin lì sempre riservati (è il cantante di "Africa", dopotutto).

E non è la soluzione ideale... la voce, discreta ma niente più, del bravo Luke funziona bene come alternativa a quella più importante e sonora di un frontman titolare, molto meno quando si trova a pilotare da sola l'intera dozzina di tracce di un album d'eccellenza, qual è una produzione dei Toto.

Oltretutto le scelte compositive per "Kingdom Of Desire" pendono molto verso l'hard rock, forse perché il chitarrista in quel periodo sta coltivando appieno la sua amicizia con Eddie Van Halen, in quegli anni allo zenit della popolarità e del consenso commerciale, cosicché è tanta la voglia di spingere l'ampli a manetta. I compagni assecondano le sue lune e l'album suona ruvido, immediato, semplice (per gli standard pop rock dei Toto, naturalmente): i rocchettari ringraziano, i denigratori del lato AOR e commerciale del gruppo prestano per una volta l'orecchio, le vendite però si ridimensionano.

E' anche il modo in cui è organizzata la scaletta che contribuisce al generale "effetto grunge", diciamo così... l'album parte infatti con un quartetto di episodi tutta grinta e zero fronzoli, specie l'apertura "Gypsy Train", caratterizzata da un'asciutta base basso/batteria/chitarra che sembra di sentire gli Extreme, od anche Steve Morse (altro idolo/amico di Lukather) versione Deep Purple. Il boogie che segue "Don't Chain My Heart" fa almeno qualche concessione al pop nel ritornello guarnito di coriste, ma "Never Enough" sprizza di nuovo ruvidezza e spartanità dall'inizio alla fine, mentre "How Many Times" si avvale di un giro blues alla Zeppelin, ahimè compromesso da uno sviluppo melodico telefonato, poco ispirato.

Quando, alla quinta e sesta traccia, il ritmo si acquieta, invece di qualche estetizzante smanceria pop rock eccoti prima una greve, purissima power ballad ("2 Hearts") alla Bon Jovi/Aerosmith, appoggiata e grassa, tutto il contrario delle solitamente agili e avvolgenti uscite di questa banda nel campo del romantico e dello slow, e poi subito dopo una dolente e poco significante "Wings Of Time", che rotola il suo mid-tempo senza sorprese dall'inizio alla fine.

Emblematica anche la successiva "She Knows The Devil", un funky hard nuovamente tutto giocato su chitarrone distorto, basso pedalante e batteria rigida... il tastierista Paich continua a latitare, qui arriva giusto col piano per strimpellare l'assolo rock'n'roll e poi si manleva nuovamente. L'orchestra Toto, con le sue fanfare di synth, le voci multiformi, il pianoforte a condurre le danze  stavolta risulta non pervenuta. C'è spazio infinito fra i pochi strumenti in azione, sembra sempre che vi suoni un trio, neanche fossero i Police... Per gli amanti della musica "cruda" e i denigratori di tutto ciò che è elegante e sofisticato, questo è l'album giusto dei Toto da avere nella collezione.

Le canzoni classicamente pop in Toto-style arrivano solo a questo punto del disco: "The Other Side" è una ballata d'amore alla Lukather, calda e avvolgente, col solito testo trascurabile, ma l'assolo "cantato" che parte dopo il ponte è semplice, profondo e bellissimo. La seguente "Only You" è sua cugina di primo grado: altrettanto romantica, non certo indispensabile, ben fatta.

"Kick Down The Walls" ricicla clamorosamente il groove ritmico dell'epocale "Dance Hall Days" dei Wang Chung (chi?... roba pop del 1984, di buona schiatta). Il disco va alla conclusione prima con la cadenzata e rintoccante canzone che dà titolo all'album ed infine con l'abituale digressione strumentale funky/fusion, chiamata "Jake To The Bone", assai scolastica e didascalica ma brillante e sincera... si sente che è venuta fuori di getto in studio, con divertimento e slancio.

Dunque un lavoro dei Toto molto spartano, il meno sovra strutturato di carriera: pochi sintetizzatori, solo occasionali cori, nessuna sezione di ottoni, il povero Porcaro impegnato a pestare forte e dritto tutto il tempo, senza concedere virtuosismi, il timbro roco e un po' depresso del cantante a declamare versi totalmente asserviti alla musica (come sempre), mentre che dalla sua chitarra sempre sapiente e robusta escono suoni e fraseggi particolarmente maschi ed essenziali.

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