Dieci anni dopo l’assoluto capolavoro Our Mother The Mountain, Van Zandt ci stupisce piacevolmente con questo splendido album. Flyin’ Shoes arriva inaspettato: un colpo di coda capace solo ai più grandi (Dylan, Young, Cohen, Lou Reed). Sebbene sia passato tanto tempo da quello splendido Our Mother The Mountain, nulla è cambiato: abbiamo ancora di fronte un artista depresso, tremendamente malinconico, isolato dal mondo che lo circonda, incapace di reggere il duro confronto quotidiano con la vita. Considerato senza ombra di dubbio tra i dieci capolavori assoluti del cantautorato americano, quest’album trova la sua forza nella profondità dei contenuti, nella semplice poesia dei testi, nello stile incontaminato adottato dal nostro: il country, indissolubilmente legato alla lezione di Hank Williams. E’ sorprendente come, ascoltando Flyin’ Shoes, si riesca vividamente ad immaginare il desolato paesaggio texano: ascoltare quest’album è come vedere un film; chiudendo gli occhi appare lontana una vecchia casa di pionieri, immersa in una infinita, sconfinata terra di solitudine fatta di rossastra polvere e sole ardente. E intanto, Townes Van Zandt ci appare come uno spirito puro che sorvola il Texas con ali di Jack Daniels e anfetamine.

Flyin’ Shoes riesce a racchiudere e condensare mirabilmente tutta la gloriosa tradizione della musica americana: c’è, come già detto, il country nella sua visione più cristallina e limpida, ma c’è anche il folk di Woody Guthrie ed il blues di Robert Johnson, Muddy Waters e John Lee Hooker. Un campionario di suoni del passato straordinariamente intrecciati, sospesi in un equilibrio artistico che ha pochi eguali nella storia del cantautorato americano.
L’apertura dell’album è affidata alla splendida Dollar Bill Blues, un capolavoro assoluto che rientra di diritto tra i pezzi più grandi che Van Zandt abbia mai scritto. Blues inaspettatamente elettrico, si fa notare per il testo duro e per la felicissima tessitura melodica che rimane impressa nella memoria dell’ascoltatore. Difficilmente si dimentica.
Rex’s Blues e Pueblo Waltz dipingono un fulgido e brillante affresco di una sconfinata landa americana. Una lontana e dolente armonica smuove le coscienze, fa vibrare gli animi: un fremito, un brivido indicibile scorre nelle vene e lungo la schiena. C’è autentico stupore nell’assaporare la bellezza innata della più scarna semplicità.
Con il cuore sospeso e carico di emozione ci si imbatte in Brother Flower, non un vero e proprio capolavoro, che però trae enorme beneficio e propria dignità artistica grazie alla perfetta collocazione che trova all’interno dell’album. Brother Flower è una canzone morbida, leggera, garbata, caratterizzata da una bella melodia stranamente pacifica, quasi distesa.
Il momento di apparente serenità è però subito smentito dalla cupa Snake Song, uno dei capolavori indiscussi dell’album. Con il suo ossessivo incedere, questo pezzo rimbomba ipnotico dentro all’anima e alla mente. L’atmosfera che si respira è di ansia, angoscia, quasi paura; l’ascoltatore è teso, in stato di allerta, si percepisce distinto e minaccioso il sibilo del serpente.
Finisce qui il primo lato, bellissimo, eppure ciò che segue lo fa sembrare solo un antipasto.
Il trio di canzoni che apre la seconda facciata è di livello sublime: alta qualità dei testi e autentica genialità musicale. Ciò che comunque rende indimenticabili e grandi questi brani è la continua ricerca di Van Zandt della semplicità, della purezza dello stile country, dell’essenza della musica. Questa ricerca di essenzialità è testimoniata coscientemente nella corale Loretta, bella senza spiegazioni, bella senza grandi giri di parole. Arriva direttamente al cuore dell’ascoltatore, grazie alla sua melodia lievemente dolce, lievemente malinconica. In fondo, all’orizzonte, anche per Van Zandt si intravede un debole spiraglio di speranza che temperato riscalda l’anima.
Segue No Place To Fall. Una chitarra slide triste risuona lontana: un carezzevole, malinconico lamento crea lo sconforto; il pianto inevitabile sale alla gola. Una delle canzoni più tristi della storia della musica moderna. Gioia del male di vivere.
Chiude il trio la canzone che da il titolo all’album. Ritorna, ancora una volta, impietosa tutta la disperazione di chi ha guardato troppo a lungo nell’abisso della vita. Straziante e onirica costituisce a tutti gli effetti uno dei più grandi affreschi della depressione. L’apertura lisergica di questo pezzo è quanto di meglio si sia mai sentito nella storia della musica americana.

Townes Van Zandt dimostra di essere ancora una volta uno dei più intensi cantautori della sua generazione, sicuramente il più fragile ed indifeso.
Bisogna solo ascoltare e capire con l’aiuto di questa musica, perché davvero alcune volte “vivere è volare”.

 

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