Mi è capitato, proprio dopo aver visto il film "Il gusto delle cose" di Tran Anh Hung, di chiedermi cosa non mi convincesse appieno della pellicola. E ciò senza nulla togliere all ' eleganza formale di quanto visto, nonché alla recitazione impeccabile di attori e attrici coinvolti ( in primis Benoit Mangimel e Juliette Binoche, rispettivamente nei panni dello chef Dodin Bouffant e della valida assistente Eugénie). Ma ci sono film ( e "Il gusto delle cose" è uno di questi) che interrogano lo spettatore su temi corposi e l' argomento del cibo e del nostro rapporto con esso ne rientra a pieno diritto (anche se ad alcuni così non parrebbe). Tanto che una domanda che è giusto porsi è la seguente: si mangia per vivere o si vive per mangiare?
La vicenda si svolge nella Francia del 1885, nel dipartimento della Loira ove i due protagonisti preparano sontuosi pranzi per clienti dell'alta società. Il loro rapporto di lavoro dura ormai da vent'anni e l'intesa professionale è ben salda, al punto che sussiste pure una simpatia reciproca. Ma se lo chef sarebbe pure disposto a sposare la collaboratrice, costei tergiversa a motivo della sua propensione a restare donna libera. Un giorno Eugénie ha un malore e, su consiglio del medico, resta a riposo. Dodin decide allora di preparare una serie di manicaretti per la donna, anche al fine di fare breccia nel suo cuore. Il seguito della vicenda pare prendere una piega favorevole ma, come ben si sa, l' imprevisto è dietro l'angolo e in generale la vita sa essere amara...
Senza aggiungere altro allo disvelamento dei fatti, devo dire di aver trovato un film senz'altro impeccabile sia per la recitazione, sia per certe scene esterne alle mura domestiche girate nell'assolata campagna francese (con forti richiami allo stile pittorico impressionista molto in voga a fine Ottocento). Anche il tema della salda collaborazione lavorativa è evocato nella vicenda ed indubbiamente si tratta di una condizione difficile a crearsi nel luoghi di lavoro come ben si sa.
Ciò che invece non mi ha entusiasmato è, in tutta sincerità, il grande risalto concesso alla fase di preparazione dei cibi da portare in tavola. Sostanzialmente, il regista ci induce a vedere la gastronomia come un rito di intensa sensualità, un mezzo per sedurre i commensali. Certo, la cucina francese tende a proporre pietanze molto condite, presentate in modo sontuoso. Ma siccome qui si parla e scrive di un film, provate ad immaginare come si può sentire lo spettatore ancora a digiuno che va a vedere un film come "Il gusto delle cose". Tanto per dire, le specialità preparate sono vol au vent alle verdure, carrè di vitello al forno, pesci di vario tipo cucinati e accompagnati a besciamella a profusione, omelette norvegese (tipo di dessert da far resuscitare i morti..) e via elencando, con tanto di vini della Borgogna d'annata. Insomma, l'effetto saturazione è garantito e non nascondo di aver provato una certa noia.
Ecco quindi il quesito sopra indicato: si mangia per vivere o si vive per mangiare? Ovvio che i gourmet alla Tognazzi propenderebbero per la seconda opzione. Personalmente, nel corso del tempo, ho imparato ad apprezzare la prima ipotesi, in quanto il cibo deve essere solo fonte di sostentamento. Certo la qualità vuole la sua parte e un maxi panino al Burghy non fa per me. Ben venga semmai una scelta sobria come quella segnalata nelle trattorie spagnole, ove optando per il " plato do dia" o "pescado do dia" ci si sazia quanto basta e non ci si abbuffa.
Già, perché non nascondo che quanto vidi a suo tempo ne "La grande bouffe" di Ferreri mi stimolò a revisionare certe abitudini alimentari. Infatti la gola, così come l' inclinazione a consumare il più possibile, alla lunga danneggia chi non sa porsi un limite (sempre presente in natura).
Carico i commenti... con calma