Il 2014 è cominciato piuttosto bene. Subito ci ha regalato il nuovo attesissimo album dei Transatlantic, il supergruppo progressive rock formato dall'ex cantante e tastierista degli Spock's Beard Neal Morse, dall'ex batterista dei Dream Theater Mike Portnoy, dal bassista dei Marillion Pete Trewavas e dal chitarrista dei Flower Kings Roine Stolt. Band nota essenzialmente per il fatto di caratterizzarsi prevalentemente per lunghe suite, dando decisamente poco spazio a brani brevi, nonché per un sound chiaramente fedele al glorioso progressive anni '70 (Yes su tutti).

Solitamente amo affibbiare loro l'appellativo di "suite-band", forse LA suite-band per eccellenza. Probabilmente il gruppo che ha fatto conoscere il progressive più classico a molti giovani degli anni 2000; immagino che molti giovani metallari o progmetallers amanti dei Dream Theater avranno avuto la curiosità di ascoltare questo side-project che vede coinvolto Mike Portnoy scoprendo così il vero genere progressive e magari andando poi ad approfondire il progressive dei tempi d'oro, diventando amanti del genere a tutti gli effetti, da metallari simpatizzanti per il progressive metal quali erano.

"Kaleidoscope", il quarto lavoro in studio della band, non cambia le coordinate della loro proposta. Siamo ancora una volta di fronte ad un progressive rock classico e canonico di stampo settantiano ed ancora una volta a dominare il disco ci sono due lunghe suite. Stavolta però in mezzo alle due epics figurano anche tre tracce decisamente brevi; è praticamente la prima volta che in un disco dei Transatlantic compaiono ben tre brani di durata ben inferiore ai dieci minuti.

Probabilmente dopo l'esagerazione di "The Whirlwind" con la sua unica composizione articolata di 77 minuti i quattro si sono resi conto di voler riscoprire anche la bellezza di composizioni più concise ma pur sempre intense. Tuttavia le suite continuano ad essere dominanti in quanto pur costituendo (per la prima volta) meno della metà dei brani (2 su 5) riempiono da sole ben 57 minuti dei 75 totali del disco.

Ma addentriamoci nelle tracce. Ad aprire il disco c'è proprio la prima delle due suite, "Into the Blue". 25 minuti che scorrono veloci e senza pesare sull'ascoltatore. I minuti iniziali sono molto movimentati, con il drumming di Portnoy variegato e frenetico e un Roine Stolt che fa altrettanto; ma la carica iniziale lascia poi spazio ad una parte delicata e sognante, con delicati tappeti di tastiere; la parte più interessante è però quella più centrale, dal sapore molto fusion, scandita da oscure linee di basso e da uno splendido assolo in crescendo di uno Stolt mai così espressivo; da segnalare poi anche la suggestiva parte cantata da Daniel Gildenlow dei Pain of Salvation, tour member nei due tour precedenti ma che non prende parte a quello programmato per "Kaleidoscope" a causa dei gravi problemi di salute che lo hanno colpito.

Subito dopo la suite spazio alle short tracks (mi concedo questo termine "olimpico", dato che siamo proprio in periodo olimpico). La prima è "Shine" una splendida ballad di 7 minuti e mezzo, un brano intenso e toccante ma dalla melodia semplice ed essenziale guidata principalmente dalla chitarra acustica e da tappeti d'organo che integrano molto bene la melodia; ancora in luce Stolt con un emozionante assolo di chitarra. Segue poi la movimentata "Black as the Sky", in cui la suite-band dimostra di saper concentrare i propri elementi anche in soli 6 minuti e mezzo; stavolta a dominare sono le tastiere di Neal Morse, che qui canta poco ma si mette in luce con articolati passaggi di synth, effetti particolari e organi distorti; da menzionare anche le pesanti linee di basso e un Portnoy niente male che accompagna in modo dinamico, con colpi improvvisi, le parti di synth; per il ritmo incalzante, per gli organi distorti, per il ritornello molto corale e per gli intrecci strumentali il brano ricorda parecchio "Devil's Got My Throat" degli Spock's Beard, a dimostrazione di quanto Morse abbia ancora piuttosto a cuore la sua vecchia band in cui continua a suonare il fratello. Poi c'è "Beyond the Sun", che è praticamente un brano solista di Morse, un po' com'era "Bridge Across Forever" ai tempi: ballata piano e voce molto calda ed accogliente ma con in più degli inserti (affidati a musicisti esterni) di steel guitar e di violoncello: quattro minuti e mezzo di relax per preparare al vero capolavoro del disco...

Eh sì, perché arriva il momento dell'altra suite, "Kaleidoscope", che supera i 31 minuti e dà il titolo al disco. Una suite varia, dinamica e imprevedibile nell'evoluzione, meno scorrevole rispetto all'altra ma mai prolissa, in ogni caso completa, racchiude tutti gli elementi della band sviluppandoli nel migliore dei modi, senza che nessun elemento risulti carente o poco sviluppato ma anche senza sovraccaricare eccessivamente nessuna parte con soluzioni ripetute inutilmente. Per me uno dei punti più alti della loro discografia! L'inizio è vivace con articolati passaggi chitarra-organo seguiti da una parte ancora più movimentata, con la chitarra quasi funky di Stolt e passaggi d'organo fluenti e corposi. Molto suggestive le parti successive, cantate da Roine Stolt prima e da Pete Trewavas poi; soprattutto in quest'ultima il lavoro della chitarra è più che mai incentrato sulla melodia, con tocchi delicati ed emozionanti. Ma è dopo la bella parte dominata dalla chitarra acustica che si scatena il vortice: lì si toccano probabilmente i vertici dell'intero album grazie a ritmiche trascinanti, cambi di ritmo fulminei e frequenti, synth corposi e suoni interessanti, intrecci e dialoghi strumentali di rilievo, arrangiamenti orchestrali ben incastrati prima del pomposo ma più moderato finale.

Ancora una volta grande prova di carattere dei Transatlantic, che pur non aggiungendo nulla di particolarmente nuovo alla propria proposta si confermano una band sempre molto affiatata ed ispirata in grado anche di saper mettere un pizzico di personalità alle proprie composizioni seppur ispirate agli anni '70. Notevole anche la prestazione di alcuni singoli: Roine Stolt più ispirato ed intraprendente che mai ma anche il drumming di Mike Portnoy si dimostra decisamente vario, mai prolisso e perfino ricco di spunti interessanti, quasi in risposta a chi ne critica l'eccessiva mancanza di idee (anche se sinceramente la sua assenza nei Dream Theater non si sta facendo sentire per via del più preparato ed imprevedibile Mike Mangini). Altra caratteristica da sottolineare è il maggior spazio alle parti vocali di Stolt e Trewavas, con Morse che sembra quasi perdere il ruolo di vocalist principale; basti ascoltare le due suite ma soprattutto "Black as the Sky" dove si limita praticamente ai cori nel ritornello.

Per concludere l'uscita è promossa a pieni voti ed ora altro non si attende che il loro imminente passaggio in Italia, a Milano e Roma, dopo il sold out milanese di quattro anni fa.

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