A sette anni dall’ultimo lavoro la suite-band per eccellenza torna alla ribalta con intenti come sempre pretenziosi che possono risultare minacciosi per impazienti e deboli di cuore. Stavolta non so se possiamo parlare ancora di suite-band, il discorso è lungo e complesso, serve andare per gradi, in ogni caso non c’è dubbio, in un modo o nell’altro la band ha esagerato ancora una volta. A partire già dall’idea di fondo: due versioni distinte dello stesso album. I Transatlantic stavolta hanno messo sul tavolo di discussione un’incredibile quantità di materiale, arrivando a discutere a lungo su cosa tenere e cosa scartare, creando due fronti interni, Stolt e Portnoy che preferivano tenere tutto e Morse e Trewavas che preferivano fare selezione; alla fine la partita si è conclusa sostanzialmente in parità ma con entrambe le fazioni accontentate e vincitrici, diciamo che hanno fatto più o meno come Tamberi e Barshim a Tokyo 2020 ma diversi mesi prima.
E così “The Absolute Universe” è stato pubblicato in una versione extended, intitolata “Forevermore” e della durata di 90 minuti, e in una abriged, “The Breath of Life” che si limita a 64 minuti. Mike Portnoy ha però sottolineato che la seconda non consiste semplicemente in una versione ridotta della prima ma in una versione sostanzialmente diversa, con differenze nei testi, nei titoli, nelle parti vocali e strumentali.
Ma veniamo al dilemma in grado di mettere in crisi chiunque voglia elevarsi ad analista del prog: si tratta di un’unica lunghissima traccia (o due, vista l’interruzione forzata fra un cd e l’altro della versione extended) o di una serie di brani uniti da un filo conduttore? Una cosa simile si era vista nel terzo lavoro “The Whirlwind”, è proprio quello il disco con cui quest’album sembra più imparentato, la formula è all’incirca simile, avevamo anche lì una serie di segmenti audio che scorrevano senza interruzioni; in quell’occasione però si rimarcò con più insistenza la natura di unica composizione, dall’utilizzo dei numeri romani per indicare le singole parti (pratica molto comune per indicare i movimenti delle suite) fino all’esecuzione per intero della composizione nel relativo tour e al raggruppamento della stessa in un’unica traccia nel conseguente live album. A dire il vero anche qui si è utilizzato il numero romano per indicare le tracce facendo pensare ad un unico pezzo di musica, Pete Trewavas in un’intervista ha effettivamente parlato di suite; dall’altra parte invece Mike Portnoy ha parlato di “songs” quando si è trovato a parlare del formato dell’album, e Wikipedia (che si prefigge di essere il più obiettiva possibile) in questo caso, a differenza di “The Whirlwind”, ha stilato la tracklist indicando con cifre arabe le tracce; inoltre le singole tracce sembrano in buona parte avere vita propria, sembrano poter funzionare anche da sole, se eliminassimo quel qualcosa che le collega con la precedente e con la successiva traccia e le ascoltassimo singolarmente potremmo anche non accorgerci che sono parte di un progetto, noteremmo che la loro struttura quadra molto bene, in “The Whirlwind” non si aveva la stessa sensazione, non tutte le sue parti prese singolarmente sembravano avere una struttura davvero indipendente. Mi viene pertanto da pensare che questo “The Absolute Universe” sia più un concept che una suite. Certo che se si prendesse l’abitudine di lasciare in un unico file audio tutto ciò che compone un brano ora non staremmo qui a farci troppe seghe mentali, ho comunque in mente di approfondire quest’argomento in un futuro editoriale. Ma d’altronde il progressive è fatto per essere amato incondizionatamente, per essere analizzato sì ma non per forza per essere capito o decifrato; alla fine tutto questo rientra nel bello del dibattito.
Premessa: mi focalizzerò sulla versione extended, che considero l’album vero e proprio e che ho ascoltato con gran frequenza nei primi mesi dell’anno.
La musica dei Transatlantic non cambia di una virgola, i suoni dei vecchi organi, mellotron, synth, le solite chitarre e bassi vagamente di marca Yes, insomma il solito sound classic prog canonicissimo con produzione modernizzata. Ma i quattro stavolta trovano il modo per renderlo interessante e diverso dal solito. È essenzialmente nella forma e nella presentazione del prodotto che i Transatlantic riescono a rinnovare l’interesse, non tanto nella sostanza. Se prendiamo i singoli brani, soprattutto quelli del primo cd, ci accorgiamo che sono pressoché impostati sul formato canzone, con strofa e ritornello che si alternano in maniera scorrevole evitando troppi saliscendi strumentali, molti brani scorrono effettivamente con semplicità alle orecchie dell’ascoltatore senza arrampicarsi su reticolati laboriosi. In pratica i Transatlantic ci vogliono rivelare addirittura di custodire una natura pop/rock. Poi però si ricordano che diventare catchy non è esattamente cosa loro e allora ecco che mascherano il tutto riempiendo i brani con tutto ciò che solitamente riempie le loro composizioni: non solo il lavoro degli strumenti rimane corposo ed intenso anche nei momenti più leggeri ma è curioso notare che in diversi brani questa apparente forma canzone si dissolve poi in una non troppo pronunciata parte strumentale finale (che rappresenta sostanzialmente il raccordo di collegamento con la traccia successiva); è un falso formato canzone, è una canzone che si presenta leggera ma poi presenta spesso il conto finale. Brani che seguono questo schema sono le funkeggianti “Heart Like a Whirlwind” e “The Darkness in the Light”, la fresca e brillante “Higher Than the Morning”, l’acustica “Swing High, Swing Low”, la beatlesiana e spensierata “Rainbow Sky”, la più rockeggiante “Looking for the Light” e la lenta e distesa “Solitude”; la acustica e folkeggiante “Lonesome Rebel” porta davvero la semplicità ai minimi termini, una certa immediatezza si riscontra anche nella veloce e movimentata “Bully”, dove i passaggi strumentali non alterano per niente la scorrevolezza del brano, in pratica una sorta di Emerson, Lake & Palmer in versione più rock e sbrigativa.
Tuttavia questa presunta leggerezza compositiva si riscontra sostanzialmente nel primo cd, nel secondo, togliendo due episodi, l’anima più prog e spregiudicata esce con maggior forza, grazie a brani più avventurosi quali “Owl Howl”, “Looking for the Light (Reprise)” e “The Greatest Story Never Ends” dove la varietà ritmica e strumentale si prende pieno potere, oppure nella conclusiva lenta e sinfonica “Love Made a Way”; ma anche il primo cd ha brani puramente prog come l’Overture o “The World We Used to Know”.
Alla fine viene da pensare che quella presunta leggerezza e concessione al pop non sia davvero credibile, probabilmente è involontaria e la band ci è finita in maniera del tutto inconscia e casuale, forse è una conseguenza della suddivisione in diverse tracce del lavoro svolto, ma da quel che noto in giro solo io me ne sono accorto, probabilmente è una mia fantasiosa interpretazione (sono specializzato in interpretazioni fantasiose, appartengono al mio stile), credo che se tutto fosse stato presentato come unica traccia non ci avrei mai fatto caso.
In ogni caso, usando un ossimoro, i Transatlantic sono riusciti ad “eccedere con leggerezza”, si sono spinti oltre con la durata ma ogni momento risulta molto snello.
Altra caratteristica è la quasi piena interscambiabilità dei vocalist, se già in “Kaleidoscope” Neal Morse aveva ormai perso il suo ruolo di vocalist principale ora gli scambi sono più frequenti, solitamente fra lui e Roine Stolt, ma si segnalano alcune parti in più affidate anche a Pete Trewavas; il bassista dei Marillion ha una voce elegante e vintage, sorprende che se ne siano resi conto solo ora.
Riguardo alla versione abriged mi soffermo poco. Dura 64 minuti e presenta 14 tracce anziché 18, alcune tracce sono state omesse e altre subiscono tagli. Ma non è tutto, spesso i testi e persino i titoli sono diversi, come anche i cantanti che le interpretano. “Heart Like a Whirlwind” diventa “Reaching for the Sky”, “Swing High, Swing Low” diventa “Take Now My Soul”; non sono escluse rivisitazioni strumentali, “The Greatest Story Never Ends” ad esempio viene decisamente stravolta nella seconda parte. I brani rimossi invece sono “Bully”, “Rainbow Sky”, “The World We Used to Know”, “The Sun Comes Up Today” e “Lonesome Rebel”, mentre ve n’è uno in esclusiva che manca invece nella versione extended, “Can You Feel It”. È senz’altro un esperimento curioso ma che in realtà non colpisce nel segno, alla fine non si ha la sensazione di trovarsi davvero di fronte ad una versione diversa e stravolta dell’album come vorrebbe far credere Portnoy; tralasciando i testi, da un punto di vista strettamente strumentale (l’aspetto sempre più importante) non si nota nessuna modifica significativa, la sensazione è semplicemente quella di una versione ridotta dell’album e basta, più o meno come fecero i Marillion di “Marbles” (pubblicato anche come unico cd con quattro brani in meno) o gli IQ di “The Road of Bones” (presentando il secondo disco come presunto “bonus” e pubblicandone anche una versione singola), è una versione commerciale, da discount, per quelli che non hanno lo sbatti di ascoltare, ma saranno mica veri proggers quelli là…?! È un po’ come quando vai all’Esselunga e prendi le scatolette di tonno da 80 g anziché 120 perché hai paura che quei pochi grammi in più ti rimangano sullo stomaco. Personalmente lascio questa versione a deboli di cuore e collezionisti, in ogni caso penso che, per quanto possa apprezzare l’esperimento, potevano risparmiarsela.
In realtà ne esiste anche una terza versione, una ultimate version 5.1 mix in Blu-Ray della durata di 96 minuti che mixa parti dell’una e dell’altra versione, ma anche questa è una chicca per collezionisti e tranquillamente risparmiabile.
Nulla toglie comunque alla grandezza dei Transatlantic, che rimangono il punto di riferimento del prog classico attualizzato, che riescono ad essere pomposi ma allo stesso tempo scorrevoli (lì dove ad esempio i Flower Kings alla lunga diventano pesanti), e che rimanendo fedelissimi al loro stile trovano anche il modo di stupire.
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