Dopo sette anni intensi e carichi di soddisfazioni con gli Alter Bridge, Mark Tremonti, eclettico chitarrista e cofondatore della band, sentì il bisogno di portare la sua creatività ad un livello differente e più personale, per dimostrare anche cosa fosse capace di fare con la voce (cose egregie, vedi anche il cover album a scopo benefico “Tremonti sings Sinatra”). Nacque così il “Tremonti Project”, progetto parallelo tanto ambizioso quanto necessario, per uno dei più talentuosi e carismatici chitarristi in circolazione nel panorama metal.

Tremonti è accompagnato da Eric Friedman alla chitarra acustica, Tanner Keegan al basso e Ryan Bennett alla batteria. Bennett e Keegan hanno sostituito degnamente Garrett Whitlock e un certo Wolfgang Van Halen, talentuoso giovane bassista e figlio d’arte (il compianto padre è Eddie Van Halen) che ha lasciato la band nel 2016 per dedicarsi a quello che oggi è un già fortunato progetto solista (ne consiglio l’ascolto).

“Marching in Time” è il quinto lavoro in studio dei Tremonti. Uscito nel 2021, il full-lenght prodotto dall’amico Michael “Elvis” Baskette per Napalm Records, è stato creato durante la fase più complicata della pandemia, cosa riscontrabile anche nei testi, nonché nella volontà dell’autore di sfogare la rabbia e la frustrazione per un vissuto così difficile. È il secondo concept album, che fa seguito al fortunato predecessore “A Dying Machine”, che aveva fatto da apripista ad un’ulteriore evoluzione delle sonorità speed metal proprie della band.

I dodici brani, che scorrono a meraviglia, partono con il ritmo incalzante di “A World Away”. Il rullante, percosso in modo forsennato, accompagna la chitarra aggressiva di Tremonti, che a metà del pezzo lascia spazio al pizzicato acustico di Eric Friedman. Si rallenta e si accelera, per essere trasportati quasi senza tregua verso la seconda traccia “Now and Forever”, molto simile alla precedente nella trama compositiva e ancora più melodica nel cantato. “If Not for You”, primo singolo estratto, è tra le mie preferite. Strizza l’occhio al mainstream, anche tramite sonorità synth in sottofondo, e risulta tecnicamente impeccabile. Mark sfodera tutte le ottave a disposizione e regala un potente assolo in chiusura. “Thrown Further” indossa i panni del tipico pezzo trash metal, con percussioni martellanti e riff a tratti cantilenanti. Il tutto sfocia nella punta di diamante del disco, “Let That Be Us”, che, come si suol dire, vale il prezzo del biglietto. Si apre con un riff esplosivo, per sfociare poi in un ritornello con vocalità tipiche del metalcore. Il plettro di Mark si scatena sulle corde alla massima velocità e il testo ci parla di riscatto:

“Back on my feet

I'll never be the same

The way I feel

I'll never slip again

I'm far from lost

But I'm far on my way

I'll never forget

I'll never be the same”

“The Last One of Us” è l’immancabile ballad, caratterizzata da note di chitarra tipiche dei primi Alter Bridge, accompagnate da un cantato che emoziona fin da subito. “In One Piece” scala la marcia e preme sull’acceleratore, come a volerci riportare sull’ottovolante dal quale eravamo momentaneamente scesi. “Under the Sun” riconduce alla riflessione, avvertendoci che da qui in poi si rallenterà per lasciare spazio a un pizzico di malinconia. Si pensa all’amore che sta finendo come ad un rifugio, un santuario scomparso, dove nascondersi nell’ombra per non fallire alla luce del sole. “Not Afraid To Lose” è la prosecuzione del discorso ma si priva della cinica arrendevolezza fin qui dimostrata. “Bleak” e “Would You Kill” condividono una narrazione molto simile, seppur la trama musicale sia sostanzialmente differente. La prima, dal testo pessimista e a tratti rassegnato:

“So when you die left wanting more

You’ll see this tragedy made no sense at all”

La seconda, più aggressiva e combattiva, a partire dal sound, che ricorda a tratti le sonorità scelte per il primo disco “All I Was”:

“Would you know if it might be the end

Would you kill if the chance came again

Are you brave when you can’t see tomorrow

Would you kill, would you beg, steal or borrow”

La seconda parte del disco è evidentemente maggiormente influenzata dal cinismo riflessivo che ha caratterizzato i giorni del lockdown, durante i quali, come detto all’inizio, è avvenuta la totale composizione del concept album.

Si chiude in bellezza con la title-track “Marching in Time”, scelta azzeccata in relazione al tipo di narrazione che caratterizza l’intero lavoro. La voce è quella di un padre che prepara il figlio ad affrontare una vita iniziata durante una tremenda pandemia. Una dedica di Tremonti al terzogenito in arrivo, la piccola Stella, nata nel marzo 2021. Tecnicamente impeccabile, nei suoi oltre sette minuti di durata, il pezzo rallenta ed accelera continuamente in un’altalena emotiva, che arriva al suo culmine con il pregevole assolo finale sincopato, fino alla chiusura in dissolvenza.

In definitiva, Marching in Time è un davvero un bell’album, che oltre a confermare il talento indiscusso di Mark Tremonti, ne mette in evidenza il coraggio e la sapienza compositiva. Cinque dischi in dieci anni, per un progetto parallelo, vogliono dire dedizione, talento ed estro creativo. Se poi il tutto è acclamato dalla critica, ancora meglio.

Per capire la qualità dei Tremonti, è bene andare a ritroso partendo dal passato del suo fondatore, fino al florido presente che lo condurrà a un futuro pieno di nuovi successi personali e non solo.

Basti pensare che il 2019 è stato l’anno della nomina di Mark Tremonti come miglior chitarrista del decennio, tramite la rivista “Guitar World”. E proprio quando nacque il “Tremonti Project”, la rivista “Guitarist” elesse l’assolo di “Blackbird” degli Alter Bridge, come il più bello di tutti i tempi.

Se il buongiorno si vede dal mattino…

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