Premessa.
Iniziamo a colmare DOVEROSAMENTE una terribile lacuna sino ad ad oggi, 2 aprile 06, esistente nel DataBaser: Tribal Tech! Se non si sono ascoltati i dischi di TT, credetemi, non si è veramente vissuta una vita degna di tale nome!
Bene; ora lo "sproloquio" molto personale a riguardo di questo gruppo.
Dunque: avete presente quando si dice "è sempre un piacere ascoltare la musica di Tizio"? Be' nel novantotto per cento dei casi si tratta solo di un utile luogo comune, una maniera per togliersi d'impaccio, senza troppo ferire, davanti all'esibizione di qualcuno che è oggettivamente bravo, ma che magari non ti fa scattare la scintilla. Magari, invece, uno sbadiglio a bocca chiusa e narici aperte non si riesce a reprimere. Chiedo scusa agli estimatori, ma il nome che mi viene prepotentemente in mente come esempio è quello di Garrison Fewell e la sua musica precisina; ripeto: chiedo ancora scusa ma è per rendere l'idea (e comunque è solo una MIA opinione)!
L'espressione suddetta, invece, non solo si attaglia letteralmente alla proposta musicale di TT, ma va magnificata sostituendo "piacere" con "adrenalina mista a gioia pura per i padiglioni auricolari". Si potrebbe (dovrebbe!) cominciare a recensire la saga dall'inizio: è imbarazzante una produzione così vasta e di qualità assoluta e costante, ma personalmente, dovendo scegliere, mi soffermo sul disco omonimo del 1991 in cui la band dapprima definita "Scott Henderson's TT", d'ora in poi allarga la responsabilità anche a Gary Willis (bassplayer) che evidentemente ed obiettivamente si era imposto quanto a creatività, gestione organizzativa, pre e post produzione, composizione e (ciliegina) figura strumentale sopraffina sul basso elettrico; nuova, originalissima e fortemente caratterizzante nell'equilibrio sonoro interno tutto.
Perché questo CD? Semplicemente perché il disco in questione è quello che quindici anni fa me li ha fatti scoprire e che quindi per me costituisce l'"imprinting" della materia. E pensare che mi fu portato dagli Usa nel 91 per sbaglio: cercavo infatti un altro disco (un pezzo di musica incredibile, che andrà prima o poi maneggiato con estrema cura e che si chiama "Players", in cui suonano Scott Henderson, Tony Lavitz, Steve Smith e Jeff Berlin) mentre invece il commesso del negozio di San Francisco, rincoglionito come la maggior parte della gioventù indigena oltreoceano quando è messa dietro un bancone, diede al mio amico, anche lui un po' ehm… "naive", 'sta cosa marziana. Quando lo misi nel lettore mi crollarono le mascelle e un bel po' di certezze: dai labili confini ancora presenti tra jazz, fusion e rock duro alla bontà del baccalà in umido con patate; cominciai ad avere dei dubbi che andavano da 'che cosa ci facciamo sul pianeta' sino a 'dove andranno a finire le anatre quando gela il laghetto di Central Park'!
Più seriamente, i Tribal Tech partono nel 1986 con Spears, per proseguire con Dr. Hee, Nomad, Tribal Tech (oggetto di questa recensione), Illicit, Face First, Reality Check: opere assolute in cui si dispiega un magistero musicale e tecnico oggetto di culto e rodimenti di fegato tra i musicisti di tutto il mondo. No jokes, here: Scott Henderson ha anche suonato con Zawinul all' inizio della sua attività solistica post Weather Report (The Immigrants, Black Water); ha vinto per diversi anni di seguito svariati poll delle riviste specializzate quale miglior chitarrista; altrettanto vale per Gary Willis col basso; oltretutto entrambi hanno da anni un contratto con la Ibanez per strumenti "signature" (a loro nome). Poi nel '99 esce fuori un'opera, Thick, per cui mai titolo fu più profetico: duro infatti come un mattone. Un episodio controverso ancor oggi oggetto di discussione tra i fans. Completamente improvvisato in studio e quindi enigmatico (per chi scrive: orribile spreco di risorse). Poi ancora, Rocket Science che riprende dignitosamente il cammino storico. Il tutto, negli ultimi anni, in un'atmosfera che definire drammatica è dir poco: Scott recentemente in una intervista si lamentava pesantemente del fatto che per TT è oramai impossibile incidere dischi perché semplicemente per questa musica indefinibile ancorché 'epica' non c'è più spazio ne' alcun discografico minimamente coraggioso. Paradossalmente TT ha un grossissimo seguito in Europa e Giappone, molto più che negli States.
Comunque: normalmente l'hard core del gruppo sono i due "merluzzi" Henderson-Willis, a cui si aggiungono in genere un tastierista ed uno o due elementi alle percussioni/batteria del giro West Coast, area di L.A.; ovviamente i migliori che ci siano a disposizione al momento dell'incisione: è infatti un bel titolo di credito poter vantare una collaborazione con TT. Scott Kinsey, comunque sembra essere il tastierista di riferimento ed il batterista più assiduo è Kirk Covington. Nello specifico disco del '91, alle tastiere troviamo Dave Goldblatt, alle percussioni Brad Dutz (anche vibist sopraffino) ed alla batteria Joey Heredia. Vi sono 11 brani stellari. Cominciando dal primo, Signal Path, possiamo dire che apre il disco nella maniera più improbabile: un rumore di elettrosaldatore per pochi secondi ti proietta dentro una fonderia; le similitudini di questa musica col metallo pesante sono infatti fortissime. Mi verrebbe infatti da definirla come "Heavy Metal del 2050". Subito un intro frammentato ma suonato in unisono su un bel walk di batteria fa da tappeto alla chitarra di Scott, che suona libera e lirica, tipo Santana meets Holdsworth. Molto godibile e lineare. La struttura del brano decolla pian piano e ti si ficca nel cervello. Subito. Pericoloso in macchina. Le tastiere accompagnano il guitar synth che elabora un sacco di riff strani ma godibili sul tempo serrato, che comunque procede incessante di sottofondo, con un grossissimo lavoro dei due ritmi. Esordio del disco alla grandissima. Atmosfera che si rarefa solo poco prima del solo di keyboards che raccoglie e decolla. Chiusura con una chitarra mai sentita prima in vita mia (ve l'ho detto: normalmente cerco di dare un, sia pur modestissimo, parere oggettivo, ma qui non mi è possibile. Perdonate, per favore). Questo pezzo vale da solo il costo del disco.
"Big Girl Blues" cambia totalmente registro; siamo su una progressione blues che fa uso di accordi sospesi ed un incedere trascinato con dei soli di tastiera e chitarra che svelano prepotentemente il terreno di coltura di Scott: blues rurale, rockblues (Hendrix, Clapton, Moore, Gallagher etc. ), passando per Steve e Jimmy Ray Vaughan, Danny Gatton, Arlen Roth e tutta la scuola texana. Non è un caso che i suoi dischi solistici (Dog Party, Tore down house con una incredibile Thelma Houston!) siano esclusivamente fatti di questo "materiale aureo". Il solo di chitarra, tiratissimo, arriva ad un punto di esasperazione in cui cede il passo ad un Goldblatt pronto a riverire Jimmy Smith col suo Hammond. Altro capolavoro. Come il resto, d'altronde. "Dense Dance" è il terzo brano, che mantiene altissima la tensione, pur iniziando come un mattino pigro davanti allo specchio e proseguendo con uno sviluppo che fonde il piano acustico con la chitarra synth in un equilibrio che sulla carta non dovrebbe avere senso. Ma comunque... 'vola'. Un po' come il calabrone, che sembrerebbe scientificamente dimostrato non poter volare, quanto a numero di battute d'ali al secondo e aria spostata; però non gliel'ha detto nessuno e lui va tranquillo. Procede così: singhiozzante ed in equilibrio sino alla fine, con un basso poppato ed una batteria rock steady che fanno da sfondo ad una chitarra mongrel Hendrix-McLaughlin... Peter Hammill (lo so: suona il sax!!!), con dive bombing e synth inclusi.
"Got Tuh B" inizia con un solo di basso su una base musicale 'galattica e rarefatta'. Questo brano, appena sentito, mi ha fatto smettere di suonare per un po' (due giorni: poi in genere riesco a ricostituire il mio ego. 'Sticazzi: pure Bob Dylan ancora non sa suonare la chitarra ma ha fatto egregie cose!). Via così sino alla fine, con basso, chitarra e batteria che dialogano in un crescendo di suoni ed una dinamica che sale-scende. "Peru" è un brano che parte molto piano, con una chitarrina, tablas ed un flautino, ma la musica poi cresce sino a livelli di eccellenza; tempo medio-lento con uso di pause strategiche. La chitarra di Scott Henderson parla: c'e' poco da fare. È un caposcuola stilistico ed un vero maestro. Ancora un incedere blueseggiante. Bellissimo il piano elettrico sopra due note bassissime di basso. Suoni eccezionali. "Elvis at the hop" parte con uno shuffle che sembrerebbe preludere ad una tranquilla trottata su un sulky; macchè: dopo un po' ti trovi su un rollercoaster che manco a Disneyland. Il solo di chitarra cresce di intensità, espressione e tecnica sino a livelli inauditi; dopo un break di due secondi in cui si sentono le uniche parole mai pronunciate su disco da Scott: "Looking for trouble?", c'e' una esplosione di suoni che definirei orgasmica. Troppo, se avete passato la quarantina. Non ascoltate questo disco in macchina. Il testimone passa progressivamente alle tastiere che riprendono con un breve solo che porta alla fine il brano, che termina "sospeso". "The necessary blonde" finalmente ti da il respiro che ti serve, dopo un cavalcata del genere. Ti culla con una melodia più terrestre, tradizionale e tranquilla. Necessario relax di alta classe con soli "cristiano-ortodossi" di semplice chitarra elettrica, armonici di basso e pianoforte acustico. Siamo sempre sul dieci e lode.
La valutazione di ciascun brano di questo disco non si discosta dall'eccellenza e chi conosce TT lo sa. Questi sono un monolite. "Fight the giant" è una cavalcata su un tempo medio molto particolare. Non saprei come altro definire questo pezzo. Radici scozzesi? Sonorità sintetizzate ed interazione telepatica. "Sub Aqua" è un altro pezzo sul tranquillizzante; bellissimo e quieto. La varietà di situazioni è una caratteristica del gruppo, che comunque si mantiene riconoscibilissimo per le sonorità e l'approccio. "Formula One" è, come dice il titolo, una corsa vera e propria; un intermezzo tecnico gustoso in cui i musicisti rincorrono le note e se stessi, uno appresso all'altro. Una specie di Salt Penuts con due litri di caffè in corpo. "Wasteland" chiude il disco in una maniera che non ti aspetteresti: sonorità "ventose" che introducono un discorso di chitarra disperata al vento; accordi minori ed atmosfera "sotterranea", con note profonde di basso ed assenza a tratti della batteria.
L'ascolto di questo disco sarà per i coraggiosi decisamente un'esperienza nuova. Roba di quindici anni fa. Ma un classico che resta; come Mozart, come Jarrett o Sibelius. Dopo questa scorpacciata di musica densa, godibile, grassa di informazione, ricca di programmazione, di synth, sequencers, timbri digitali vari, si può solo tornare ad una tecnologia semplice: un vibrafono od un flauto con una chitarrina, due bonghetti. Una dimensione tecnologica ancestrale, magari ancora più scarna e primitiva: tribale! Una "Tribal Tech", per l'appunto. Ed eccoci daccapo…
Links per Scott/TT/Gary:
http://www.scotthenderson. net/
http://online-discussion.dhenderson.com/ScottHenderson/
http://www.garywillis.com/
interviste degne di essere lette:
http://www. innerviews.org/inner/willis.html
http://www.guitar9.com/interview47.html
http://www.joocypeach.com/World%20of%20Willis.html
http://www.jazzine.com/artists/scott_henderson. phtml
:-) V.
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