"All I want in this desperate night is your hoop of hovering light" Angelhead

Un maestoso galeone scoperto nel mare antistante Seattle dalle grandi ondate grunge scomparse. Questo è "Fast Stories… From Kid Coma", primo album dei Truly, l'ultimo dei grandi gruppi del North West a esordire sulla lunga distanza. Tale esordio purtroppo avvenne in una congiuntura temporale sfavorevole: nel 1995, anno in cui il mito della città della pioggia aveva imboccato la parabola discendente, e iniziavano a spopolare i vari cloni intenti a svilire l'essenza originaria del grunge. Un prodotto ambizioso e curato come questo, che anelava ad andare oltre i confini di un genere a quel punto sulla via della fossilizzazione, cadde inevitabilmente nell'anonimato.

Occorre fare un passo indietro. Il gruppo si forma nei primissimi anni 90, vantando illustri esponenti della scena. Il batterista Mark Pickerel proviene dagli Screaming Trees, mentre il bassista Hiro Yamamoto è stato la spina dorsale dei primi Soungarden, lasciando Cornell e soci per la presa troppo professionale presa dopo "Louder than Love". Il perno è però costituito dal personaggio meno noto, il cantante-chitarrista-tastierista Robert Roth. Se la nobiltà della sezione ritmica garantisce un notevole spettro di soluzioni, grazie a poderose e sulfuree scansioni, Roth dimostra tra questi solchi di poter entrare a pieno titolo nell'élite artistica cittadina. Parti di chitarra grezze e sature di distorsione come da manuale vengono intarsiate da sognanti organi e squisiti tocchi di mellotron, ridando linfa a un filone aureo che sembrava ormai dissanguato: il tutto condito oltretutto da una voce anthemica e incisiva come da cobainiano copione.

"Fast stories… " è un concept album, imperniato sui ricordi un ragazzo in stato vegetativo, il quale rivive in fase onirica una passata estate felice. "Il tempo è sogno", diceva Calderòn de la Barca. E nei 70 minuti di questa monumentale opera il tempo è sublimato magistralmente, nel suo continuo svolgersi e riavvolgersi, in un gioco di rimandi e abbandoni, fughe e riprese, inabissamenti ed emersioni verso i buchi neri dell'inconscio. Di questo percorso è degna colonna sonora la materia plasmata dal trio, in grado di alternare senza soluzione di continuità recrudescenze hard, fluttuazioni psichedeliche, ritmicità quasi pop e un dinamismo indie in grado di eludere le trappole della prolissità. Il viaggio comincia a bordo di una "Blue Flame Ford" riverniciata con potenti e ipnotiche laminature; prosegue sterzando verso tempestose strade hard rock asfaltate da anfetamine in "Four girls", "Hurricane dance", e "Virtually"; approda felicemente presso bizzarre oasi lisergiche in "So Strange", riuscendo tra l'altro a incastonare le malie liquide dei Doors nel contagioso furore dei Nirvana in "If you don't let it die" e "Angelhead". L'ultima tappa è costituita dal tour de force romantico ma disincantato di "Chlorine", 11 minuti intrisi di rugiada purificatrice, un ideale ponte tra Woodstock e il primo Lollapalooza.

In quel galeone c'è dunque qualcosa di prezioso: il "Zen Arcade" del Puget Sound.

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